Paola Zangirolami e il rugby: «Tante botte. Ma che emozioni...»
Di Stanghella, classe 1984, Paola Zangirolami ha deciso nelle scorse settimane di lasciare il rugby giocato. L’ha fatto dopo la conquista a giugno dell’ennesimo scudetto con le Valsugana Girls di Padova e la partecipazione con la nazionale alla coppa del mondo tenutasi in agosto in Irlanda. Per lei, complessivamente, 76 presenze in maglia azzurra e sette scudetti conquistati: uno a Treviso con le Red Panthers Benetton, tre con la Riviera (Mira) e tre (consecutivi) con il Valsugana.
«Se mi chiedi cosa posso aver dato io al rugby, ora come ora mi vien da pensare all’ultima partita col Valsugana, la finale scudetto.
Parla il capitano, Elisa (Giordano; ndr), e noi lì tutte in gruppo: “Dobbiamo essere come la Gina, nonostante le ginocchia distrutte lei è qui con noi, a dare tutto quello che ha”... scusa, ancora m’emoziono se ci penso.
Beh, la Gina sono io, tutti ormai mi conoscono per Gina ed è tutto cominciato per scherzo: c’era mio zio che mi veniva a vedere, ero piccolina, ce n’erano cinque di ragazzine che si chiamavano Paola e lui, anche un po’ per prendermi in giro, chiamava e gridava “Gina!”. Le ginocchia distrutte? Purtroppo sono proprio così, operazioni a entrambe le ginocchia, crociati e collaterali, senza più menischi e cartilagini, già stare in piedi per ore diventa un problema. Sono andata avanti con infiltrazioni su infiltrazioni, sì, non è il massimo, però a ripensarci dico che lo rifarei ancora: non mi sono persa nulla e del male non me ne importava più di tanto, è con le mie compagne che volevo essere, lì con loro».
Di Stanghella, classe 1984, Paola Zangirolami ha deciso nelle scorse settimane di lasciare il rugby giocato.
L’ha fatto dopo la conquista a giugno dell’ennesimo scudetto con le Valsugana Girls di Padova e la partecipazione con la nazionale alla coppa del mondo tenutasi in agosto in Irlanda. Per lei, complessivamente, 76 presenze in maglia azzurra e sette scudetti conquistati: uno a Treviso con le Red Panthers Benetton, tre con la Riviera (Mira) e tre (consecutivi) con il Valsugana.
«Tutto è cominciato a casa, con mio fratello – bello robusto – che andava a scuola a Monselice, in classe erano in tanti che giocavano a rugby e così c’è andato pure lui. Io più piccola, non proprio a rivaleggiare sempre con lui, ma insomma le cose le dovevo fare meglio, sia a scuola che fuori. Dunque anch’io volevo fare rugby, mi sono impuntata, quando voglio sono proprio testarda e nonostante mia nonna – figura importante in famiglia – non ne volesse sapere di avere una nipotina che andava a fare “uno sport da maschi”, ho cominciato. Unica femmina, gli altri che mi prendevano in giro, però mi rendo conto adesso che mi ero creata una squadra, era me che i ragazzini seguivano. Vedendolo adesso da qui, penso che il rugby m’abbia preso intanto come gioco in sé e poi per il fatto che le cose le facevo bene, questo è stato importante. E poi è uno sport di squadra, che vuol dire farsi e avere degli amici e lo capisco bene, guardando indietro, che è proprio da loro che andavo (e vado) nei momenti difficili».
«Perché una bambina dovrebbe provare col rugby? Beh, intanto mica tutte sono portate a degli sport “femminili”, no? Anch’io, per dire, ho fatto pure pattinaggio artistico e poi cinque anni di pianoforte, ma quando c’è stato proprio da scegliere, nessun dubbio. Torno a dire l’importanza della squadra, di quando sei lì che prendi delle botte e c’è il tuo amico lì vicino, che ti aiuta. Penso in particolare ai bambini, è un bell’ambiente questo nostro. E poi il potersi buttare per terra, buttar giù anche gli altri, a casa e a scuola è sempre no, ma sul campo è sì».
«Ora ho smesso, soprattutto dal punto di vista fisico era troppo. Però non ho mollato, faccio ancora qualcosa, un po’ di quel che facevo prima.
Finora e per tanti anni la mia vita è stata organizzata in funzione degli allenamenti e delle partite ed è questo che soprattutto mi manca nel mio quotidiano, l’impegno di allenarmi per uno scopo. Poi c’è quell’altro aspetto, che forse non sento ancora del tutto, troppo poco tempo: lo spogliatoio, il prima e il dopo, tutte quelle emozioni che girano lì dentro, non è un qualcosa che trovi così facilmente qui fuori. Però penso pure che in fondo non si lascia mai proprio del tutto, specie quando è stato sempre una delle parti fondamentali della vita, della mia vita: dura lasciare. Adesso? Mah, vedrò. Lavoro da Decathlon lì a Padova e sono sempre stati molto bravi con me, dandomi tanta e tanta flessibilità. Però sono laureata in scienze motorie e una cosa che mi piacerebbe fare è quella d'insegnare, una strada che mi attira, che mi piacerebbe costruirmi. E comunque vorrei star dentro al mondo del rugby. Non tanto da allenatore, no, penso più a qualcosa da dirigente, cercando insomma di aiutare le ragazze perché possano avere sempre più possibilità all’interno del movimento».