La porta santa da sfondare è quella dell'io
Il giubileo, anche in una vita regolare e strutturata come quella monastica carmelitana, è un’autentica scossa e un’autentica scommessa. In gioco viene messa la radice della chiamata ricevuta in dono che chiede di essere incarnata giorno dopo giorno.
Non è solo un notevole esame di coscienza con cui ci si fronteggia alla sera a compieta, una sorta di tabella della adempienze e delle inadempienze. A onor del vero sarebbe già un bel passo avanti...
Si presenta piuttosto come una presa di coscienza del proprio cammino nella storia dell’umanità, di questo momento cronologico, preciso e ineludibile, che viviamo anche se non siamo immerse nel quotidiano di tutti ma che pur condividiamo in simbiosi ed empatia. Emerge dal nostro profondo quel volto che abbiamo ricevuto in eredità cromosomica da tutti i nostri antenati, quei tratti che l’educazione e il rapporto con chi ci è vissuto accanto hanno inciso e rendono ognuna di noi unica e preziosa. Questo volto subisce la scossa di essere messo a confronto serrato con “il Volto della misericordia del Padre”, cioè Gesù Cristo.
E si sprofonda... Il mistero trinitario chiede di poter entrare pienamente nel tessuto della propria vita, del proprio respiro. Esiste però la porta del nostro io, quella costruita sulle nostre resistenze all’irruzione di Dio, perché aderire a Lui, senza condizioni, pare una perdita del nostro io, della nostra autostima, costruita con tanta fatica nel corso della vita. Quella self-image che non siamo disposti a cedere o, peggio, ad abbandonare senza sentirci perduti. Eppure solo questo mistero della vita trinitaria che fa irrompere Gesù Cristo, è pegno di salvezza, è “la via che unisce l’uomo a Dio”.
In monastero, una volta entrate, pare di averlo capito. Cammin facendo appare chiaro che non si tratta di capire, perché capire vuol dire restringere, chiudere in una sorta di definizione, in una proiezione nostra. Mentre bisogna lasciarsi capire. Lasciarsi leggere e percorrere la via indicata. Capire significa porre concetti e un limite a Dio stesso, mentre aprirsi al mistero significa lasciarsi inondare da quel non-limite che è la misericordia di Dio che perdona sempre e sempre accoglie. Da qui la fonte della gioia e la certezza di essere amate. Malgrado tutto.
La porta Francesco l’ha aperta. La nostra va... sfondata... perché è la porta dell’io in relazione con le sorelle. Solo se questa porta rimane spalancata, la nostra compresenza alla storia di tutti può diventare canale della misericordia. In fin dei conti, non occorre pianificare una strategia specifica oppure pensare a celebrazioni particolari. La vita monastica passa per il silenzio gravido della Presenza; passa per l’ascolto appassionato della Parola; passa per l’adorazione di quel pezzo di Pane su cui tutto è guadagnato oppure tutto è perso. Sperimentare la vicinanza di Dio e intuire che Egli si è chiamato “il misericordioso”, inquieta e interroga.
In ebraico il nome suona “el Rahum”, il Dio che ha l’utero. Colui che genera, che dà vita ma che non dimentica mai il frutto del suo grembo e che sa guidare i liberi passi della persona nella vita perché possa percepire le impronte di Lui (l’utero che sempre genera) che costantemente ci precede e ci fa scorgere la segnaletica che guida le nostre scelte, quasi sempre viziate dalla centratura su noi stessi: ce la diciamo e ce la cantiamo. Se invece fissiamo lo sguardo su Gesù Cristo, l’autocentratura si viene sgretolando e il passo fuori dalla porta dell’io si muove agile e solerte. Una sorta di magnetismo che attrae e disegna i contorni del volto che si modificano e apprendono l’illimite e toccano con mano “la misericordia che sarà sempre più grande di ogni peccato”. Possiamo così ritrovare la fiducia e anche saperla donare per contagio di comunione con tutti i fratelli e le sorelle.