Profughi a Padova. Parole (violente) in libertà
Il sole cocente che non dà tregua all'Italia batte sulle tende dei profughi allestite all'ex caserma Prandina di Padova. Ma di fuoco sono anche i commenti che affollano la pagina Facebook del sindaco Bitonci su questa vicenda: un fiume in piena di insulti, espressioni razziste, inviti alla violenza. Molti degli autori di questi post si vergognerebbero a rileggersi o a sentire le proprie parole declinate davanti ai loro figli. Eppure quelle espressioni rimarranno scolpite nella Rete vita natural durante, con tanto di nome e foto. Questo è uno degli effetti dei social network. Mentre i giornalisti e i politici dovrebbero almeno esercitare la prima «forma di carità» nei confronti dei profughi, come l'ha definita Massimo Gramellini: raccontare la verità.
I nomi evitiamo di citarli, tanto lasciano il tempo che trovano. Sulle sgrammaticature è perfino inutile soffermarsi: si sa che a digitare sulle tastiere dei cellulari l’errore è sempre dietro l’angolo. Sono i giudizi, le idee, le proposte che meritano quantomeno una riflessione. Stiamo parlando dei commenti che a decine affollano la pagina Facebook del sindaco di Padova, e come la sua tante altre bacheche virtuali prese d’assalto in questi giorni che segnano l’ennesima preoccupante svolta nella vicenda profughi, con le tende allestite nell’area dell’ex caserma Prandina proprio nei giorni in cui il caldo non dà tregua all’Italia.
È un fiume in piena di insulti, espressioni razziste, inviti alla violenza quello che tracima dai social network. Nulla di nuovo, ma molto su cui pensare. Un mese fa Umberto Eco ha sollevato un polverone estremizzando il concetto: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino e venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un premio Nobel». Al netto di una certa arroganza e di quello spirito elitario che lo ha sempre contraddistinto, in casi come questi è difficile non trovarsi d’accordo col professore scrittore.
Ma non è solo la volgarità dei commenti, il problema. L’era dei social network, fra tanti lati certamente positivi, ci consegna due questioni capitali con cui fare i conti. La prima, che riguarda tutti, attiene alla nostra reputazione. Credo sinceramente che, col senno di poi, tanti autori si vergognerebbero a rileggere certe invettive o a sentirle declamare in presenza dei loro figli. Ma se un commento da bar viene presto cancellato dalla memoria degli astanti, quel che pubblichiamo su Facebook rimane lì, con accanto il nostro nome e la nostra fotografia, vita natural durante. Destinato a marchiarci per sempre, senza concrete possibilità di rettifica, anche oltre i nostri demeriti e le nostre colpe. La seconda questione, già ben chiara agli studiosi, riguarda il modo in cui ci informiamo. Sempre più italiani non solo non acquistano giornali ma non guardano nemmeno i loro siti internet. Interpretano il mondo esclusivamente attraverso le notizie che compaiono sul loro profilo Facebook, spesso limitandosi a un rapido sguardo al titolo. Ma Facebook, al pari di Google, non è una piattaforma neutra. L’inganno principale è che sulla nostra bacheca trovano spazio solo i suggerimenti della pubblicità e quelli che ci inviano gli “amici”.
E così, paradossalmente, noi che pensavamo di raggiungere tramite internet più fonti di informazione da mettere a confronto finiamo invece per ascoltare sempre e soltanto la voce di quelli che la pensano come noi. L’effetto è psicologicamente confortante, specie in un’epoca di grande confusione e spaesamenti, ma non ci aiuta a fare un passo in più in direzione della verità. Anzi, ci consolida nei nostri pregiudizi, fino a farci perdere il contatto con la realtà. Scriveva qualche settimana fa Massimo Gramellini su La stampa: «Nessuno ha la soluzione in tasca ed è comprensibile che i residenti impoveriti si sentano minacciati nei loro residui diritti da masse di persone ancora più disgraziate di loro. Per questo gli andrebbe almeno spiegato che i profughi non sono invasori o terroristi, ma fuggitivi con l’unica colpa di volere restare vivi. Il racconto della verità è oggi la prima opera di carità».
Pensiamoci, noi giornalisti, i politici, i lettori. Di come provare a strutturare una corretta accoglienza abbiamo parlato tante volte, ed è inutile ripetersi. Così come diventa un gioco stucchevole rinfacciarsi a vicenda le responsabilità. Quale sia la verità non è sempre facile da comprendere, e il diritto di esprimere liberamente la propria opinione – anche la più sgradevole – è una conquista a cui nessuno è disposto a rinunciare. Ma diamoci almeno il tempo di rileggere, prima di pubblicare il prossimo commento.