Da Padova a Idomeni: tra speranza e wi-fi, l'esperienza dei volontari nel campo profughi
Dal 25 al 29 marzo, 300 italiani, tra cui ragazzi di Padova, sono stati a Idomeni, campo profughi greco a confine con la Macedonia, per portare beni di prima necessità e un po' di umanità. E' la campagna umanitaria "Overthefortress" organizzata da Melting pot Europa. I migranti per chiedere protezione internazionale possono usare solo Skype, così i volontari hanno portato una parabola e l'elettricità.
E’ possibile che il destino di un uomo debba dipendere da Skype? Nel campo di Idomeni, al momento, il servizio di chiamata online è l’unico strumento che i migranti hanno a disposizione per parlare con le autorità e avanzare la richiesta di protezione internazionale. Una volta negata, scatta in automatico il rimpatrio. E’ uno degli aspetti più controversi che hanno notato gli attivisti che hanno partecipato a Overthefortress, campagna umanitaria organizzata da “Melting pot Europa”, che dal 25 al 29 marzo ha portato nel campo profughi greco al confine con la Macedonia beni di prima necessità e un po’ di umanità. Tra i 300 italiani salpati dai porti di Ancona e Bari c’erano anche dei ragazzi di Padova che hanno raccontato la loro esperienza in una serata organizzata, venerdì 15 aprile, da radio Sherwood.
«Dinanzi alle immagini di questa Europa sempre più fortezza che stringe accordi criminali con la Turchia, abbiamo deciso di organizzare questo viaggio di massa come laccio emostatico che tiene stretto e non fa morire il nostro continente – ha detto Barbara, attivista di Melting pot Europa – Abbiamo toccato con mano una forte solidarietà di tutti perché quando abbiamo lanciato la campagna per Idomeni, abbiamo ricevuto così tante adesioni che siamo stati costretti a chiudere le iscrizioni».
In molti hanno partecipato all'iniziativa, non solo fisicamente, ma anche con donazioni: radio Sherwood ha dato il suo contributo regalando una parabola utilizzata in passato per il festival, indispensabile nel campo profughi per espandere la rete wi-fi. Perché se Skype è l’unica porta verso una nuova vita è anche vero che a causa di una connessione a intermittenza, comunicare è praticamente impossibile. «La situazione è disumana e inammissibile e ci sono gravi limiti giuridici - denuncia Giulia, operatrice legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, che ha accompagnato la carovana nel mese di marzo - Molti vengono dalla Siria, dal Pakistan, dall'Afghanistan e dall'Iraq, paesi in guerra, ed è loro diritto avanzare domanda di protezione internazionale, ma la linea non prende mai e bisogna fare a turno a seconda di fasce orarie in base alla lingua. E’, inoltre, in corso una violazione del regolamento di Dublino perché in molti hanno dei parenti sparsi per l’Europa e il ricongiungimento del nucleo familiare è un loro diritto. E questo viene precluso».
Nel viaggio di marzo, Overthefortress, oltre alla parabola, ha portato nell'accampamento anche un paio di gazebo con caricatori per i cellulari, un generatore e tutto l’occorrente per far arrivare l’elettricità. I più piccoli hanno trovato già il modo di sfruttare la corrente, dando vita a uno spazio dove vedere i cartoni animati. Sul sito, inoltre, Melting pot Europa ha lanciato una campagna di crowdfunding "No border wi-fi" per chiedere ulteriori finanziamenti per mantenere attivi i servizi, ma non è tutto: il gruppo, che sarebbe dovuto partire con un solo furgone carico di aiuti, alla fine ne ha trasportati cinque, colmi di scarpe, vestiti e materiali di prima necessità. Merito soprattutto della tanta partecipazione arrivata da tutta Italia: «Non avevo idea di cosa potesse essere raccogliere così tanta roba, abbiamo lasciato alcuni oggetti a Vicenza e Verona da spedire nei prossimi viaggi – dice sorpresa Enrica – E’ la dimostrazione di una generosità infinita e che le persone ricordano bene cos'è la solidarietà. A Padova c’è una parte di città, che va fatta emergere, molto solidale e che si è interessata con versamenti, aiuti o semplicemente augurandoci buon viaggio». Enrica, alla sua prima esperienza a Idomeni, ha raccontato, poi, le 16 ore di viaggio in traghetto trascorse a pensare a come impacchettare e smistare tutti gli oggetti, distribuendoli su un pezzo di terra che accoglie più di 10mila persone, evitando assembramenti e litigi.
Ma tra tutti gli oggetti che i volontari hanno portato, c’è qualcosa che va oltre il tangibile e il materico: la speranza. L’ha capito Giacomo: «Tra code per il cibo, per la legna e per i vestiti, chi vive in questo luogo ha smarrito il senso del tempo e dello spazio, una doppia privazione che svilisce l’essere umano. Unica salvezza a questa tortura è la speranza, quella che scoprono, in un abbraccio, quando giochiamo con loro o quando ci vedono arrivare con le pettorine arancioni». Giacomo, musicista, ha donato una sua cassa ad alcuni ragazzi del campo perché crede fortemente nel valore delle note come panacea contro la sofferenza: «In una tenda c’era un uomo che aveva portato con sé un saz, strumento a corde della tradizione curda. Mentre suo figlio lo suonava lui si è allontanato e si è appoggiato sui binari per piangere. Quel suono gli ricordava il suo passato, ma proprio questo ricordo, assieme alla musica, ci permette nel momento della miseria di sperare in qualcosa nel futuro».