Capodarco compie cinquant'anni. Tutti spesi accanto a disabili e scartati, perché ogni vita vale e ha dignità
La Comunità festeggia quest'anno un compleanno importante: era il Natale del 1966, quando don Franco Monterubbianesi e 13 ragazzi e ragazze disabili e sani, andarono ad abitare in una villa abbandonata a Capodarco di Fermo. Da allora la Comunità è cresciuta e ora è presente in otto regioni in Italia e anche all’estero.
Il suo raggio di azione dalla disabilità fisica si è esteso ad altre “povertà”: sofferenti psichiatrici, famiglie sole, minori, stranieri, ragazzi tossicodipendenti. In occasione del 50° di fondazione il presidente, don Vinicio Albanesi, traccia un bilancio e guarda al futuro.
Dare dignità ai disabili: questa è stata la “mission” della Comunità di Capodarco, da quel Natale del 1966, quando don Franco Monterubbianesi e 13 ragazzi e ragazze disabili e sani, andarono ad abitare in una villa abbandonata a Capodarco di Fermo.
Da allora la Comunità è cresciuta e ora è presente in otto regioni in Italia e anche all’estero. Il suo raggio di azione si è esteso ad altre “povertà”: sofferenti psichiatrici, famiglie sole, minori, stranieri, ragazzi tossicodipendenti. In occasione del 50° di fondazione, a don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, abbiamo chiesto un bilancio di quanto realizzato finora e anche le prospettive future.Cinquant’anni di vita: quanto cammino è stato fatto?È un bilancio positivo perché siamo partiti in tempi nei quali i disabili erano nascosti: stavano nelle famiglie o negli istituti. In realtà, molto lentamente hanno mostrato le loro capacità e, ancora più importante, sono stati accettati non solo dalle persone ma anche dalle istituzioni. Se oggi possiamo parlare di rispetto, inserimento, vita indipendente, cure, riabilitazione, lo si deve anche a questa lunghissima storia partita quasi dal niente, nel 1966, e poi man mano diventata patrimonio comune. Abbiamo dimostrato, infatti, che i disabili sono persone con i loro sogni, energie, risorse da mettere a frutto.Quando nel Natale 1966 è stata fondata la Comunità si reggeva su tre principi fondamentali: rispetto della persona, vivere insieme in comunità, essere attenti a quanto il territorio richiedeva. Questi tre principi sono attuali oggi?Sono ugualmente attuali perché il rispetto della persona è sempre centrale. All’inizio abbiamo accolto persone disabili fisiche, adesso sono con noi disabili mentali, persone con malattie progressive, malati psichiatrici, tossicodipendenti, immigrati, donne sole, abbandonate e maltrattate, adolescenti problematici. Ogni persona ha la sua dignità e merita rispetto per quello che è, non per quello che può fare. Quindi, il primo principio è ancora valido.La scelta di vivere in comunità funziona ancora?Cinquant’anni fa si viveva oggettivamente insieme. Oggi, pur essendoci una maggiore flessibilità, il progetto di comunità evidenzia che i problemi gestiti insieme hanno maggiore possibilità di essere risolti in termini umani, strutturali, economici, finanziari. Oggi il principio di vivere in comunità significa stare insieme e ciò può essere in diversi modi: sia fisicamente sia con vincoli che non lascino nessuno solo.L’attenzione al territorio cosa significa oggi?L’attenzione al territorio occorre sempre e ci viene anche richiesta. Abbiamo il vantaggio di conoscere il territorio perché siamo in frontiera: così riusciamo a cogliere quali sono le risposte da dare ai bisogni. Fin quando arriva l’istituzione passa molto tempo: stare in frontiera significa, invece, risolvere rapidamente i problemi e anche sperimentare, perché a volte non è facile capire quale risposta dare.Quanto è cresciuta in questi anni la Comunità di Capodarco?All’inizio sono venute a Capodarco persone da tutta Italia, poi c’è stata l’intuizione che ciascun gruppo gestisse la comunità nel territorio di provenienza. Oggi sono 14 le comunità in Italia, da Nord a Sud, e tre all’estero: in Ecuador, Albania, Camerun.Quali erano le priorità cinquant’anni fa e quali sono le attuali?Cinquant’anni fa c’era la priorità di affrontare il problema dei disabili fisici e capire che tipo di risposta dare. Oggi la priorità si sta spostando verso le situazioni più pesanti, per esempio la psichiatria, le malattie neurodegenerative, la disabilità fisica e mentale insieme, ma non bisogna cadere nell’assistenzialismo per cui la gente viene fatta solo sopravvivere. Da un certo punto di vista è un lavoro più difficile di quello di ieri.Come si risponde a queste nuove sfide?È necessario rispettare le persone, non esigere la guarigione, non considerare la malattia predominante sulle vite e gioire di ogni filo di vita perché prevalga sulla malattia, sulla solitudine, sull’abbandono.Nella società attuale quale contributo può dare la Comunità di Capodarco?Oggi il nostro compito è di impedire un’istituzionalizzazione di ritorno. La ristrutturazione tecnica, con l’inserimento di figure professionali e la parcellizzazione degli interventi, e la crisi tendono a far accorpare le persone, ad esempio gli anziani, in strutture da 40/80 posti, in modo da fare un’economia di mercato, un risparmio di energia che però uccide la vita perché significa mangiare in un certo modo, essere accuditi in fila, non avere autonomia, non avere libertà. L’istituzionalizzazione è in atto, nascosta dalla cosiddetta professionalità, ma non si può dare una carezza con un guanto di lattice. Andrebbero recuperate una flessibilità e un’umanità che le istituzioni tendono a nascondere un po’ per paura della responsabilità e un po’ per risparmiare.Quali sono le prospettive future della Comunità?La vita presenta sempre nuove criticità, quindi occorre molta attenzione per trovare le risposte alle esigenze che nel tempo emergono, come quelle dei padri soli con bambini e delle donne maltrattate.Avete celebrato il 50° con un convegno dal titolo “L’utopia che si fa storia”. Quanto l’utopia diventa anche profezia per Capodarco?All’inizio sembrava una pazzia, perché mettere insieme dei disabili, permettere loro di lavorare, ricostruirsi una famiglia, essere cittadini come tutti era un’utopia. Ora è realtà. L’utopia diventa anche profezia perché, dopo una prima fase di invenzione e fantasia, c’è il rischio di sedersi sugli allori dei risultati raggiunti. Questo è un pericolo da combattere perché guardandoci intorno ci sono sempre persone che soffrono, sono sole, necessitano di rispetto, inserimento, autonomia. Tutte le situazioni che non hanno risposte hanno bisogno di nuove soluzioni per vivere felicemente per quanto è possibile.