I Domencia di Avvento *Domenica 30 novembre 2014
Marco 13, 33-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».
Tra Natale e Pasqua
Inizia un nuovo anno liturgico nel quale saremo accompagnati in modo particolare dalla lettura del vangelo secondo Marco. Stanno sulla nostra strada tre verbi, in questo brano che precede immediatamente il racconto della passione e morte di nostro Signore: fare attenzione, vegliare, non sapere. Non molti versetti dopo questo testo, ci verrà detto del sonno pesante che travolse gli apostoli, a cui dal Maestro era stato chiesto di stare svegli e raccolti in preghiera: «Venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14,37). Così questo brano che ci proietta al Natale, ha le sue premesse nella Pasqua.
Guardare con attenzione
Quel che viene tradotto con “fate attenzione” è il guardare accuratamente. E questo non è facile in tempi in cui siamo bombardati da immagini, che a volte sono così studiate e subdole da insinuarsi nel nostro immaginario. Sarà un po’ moralistico, ma teniamo in debito conto la disciplina dello sguardo per custodire noi stessi dall’eccesso di stimoli visivi, invadenti e svianti per quantità e scarsa qualità. Ma c’è ben di più.
In molte parrocchie si accenderà una candela della corona d’avvento a significare l’impegno – ben più esigente di far ardere un lume – a permettere che splenda la luce dello Spirito nel proprio essere interiore. La tradizione cristiana insegna che c’è un occhio spirituale da attivare per mezzo della preghiera di contemplazione. Con gli occhi chiusi, raccolti e nella quiete, tutti possono fare l’esperienza della visione interiore che scaturisce quando si fa meditazione. «Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci» (Sal 38,9). Nel clima di frenesia che spesso ci circonda, “guardare con attenzione” è il gusto del vivere la preghiera come silenzio che aspetta di essere colmato dalla dolcezza della parola divina. Vedere il senso di ogni cosa, pur con gli occhi chiusi; percepire la consolante luce che manda i suoi riflessi ovunque.
Vegliare
Dove incontro nostro Signore se non qui e ora, nel tempo presente? La vocazione monastica, che da sempre la chiesa ha avuto in onore, raccomanda di essere presenti a se stessi, perché ogni istante che Dio ci dona è tempo propizio di grazia. Dio ci incontra nel nostro oggi, nel presente. Ogni istante è grembo di cielo: vegliare richiede ai servi della parabola di essere operosi, al portiere di stare al suo posto. «Age quod agis» raccomandavano gli antichi, fa’ con tutto te stesso quello che stai facendo, perché è là che sta Dio.
L’attesa come spina dorsale dell’avvento non è quindi lo svilire il presente vivendo sbilanciati nel futuro, come se questo fosse un tempo di vuoto. Anzi l’attesa, colma di desiderio, dà gusto e spessore all’oggi, chiede di assumerlo con responsabilità piena.
«Vegliate»: perché amare il presente non significa vivere alla giornata. Noi sappiamo di essere dentro una relazione personale con Dio, che è storia, con una direzione, una meta.
Non sapere
Ai cristiani dei primi tempi, ansiosi di conoscere quando il Cristo glorioso sarebbe tornato per portare a compimento la storia universale, l’evangelista ricorda che questo non è dato sapere. E probabilmente neanche sarebbe utile e benefico. L’incontro col Cristo glorioso, però, si compie al momento della morte di ciascuno: come non sappiamo perché siamo nati da certi genitori, in un certo luogo, in un certo anno, così non conosciamo il momento della nostra personale Pasqua.
È un evento da cui non essere atterriti. È, infatti, incontro d’amore senza mediazioni, faccia a faccia, con colui che è lo sposo della chiesa, che ha dato tutto se stesso per noi. Quel giorno faremo un gran balzo in avanti, con la certezza che «mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui. Tu vai incontro a quelli che praticano con gioia la giustizia e si ricordano delle tue vie» (prima lettura).
Noi, argilla
Un giovane poco più che trentenne, brillantemente laureato, mi affida la sua accorata invocazione di ripartire: «Ne ho fatte tante, per orgoglio, contando solo sulle mie forze... voglio ripartire». Sta partendo per un pellegrinaggio; sulle spalle ha il peso di dipendenze che lo condizionano terribilmente.
E si intuisce che avvento è appunto questo: fede nella novità di un Dio che è sempre più forte del nostro irrigidirci e comprimerci dentro una vita che non è nostra, che non ci calza affatto... la vita – non-vita – del peccato. «Scesi nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto»: così il profeta Geremia (18,3s).
E così essere argilla non sminuisce la nostra dignità, piuttosto è certezza che le mani forti e sapienti del divino vasaio possono sempre offrire un nuovo inizio, là dove per debolezza abbiamo perso parte della nostra bellezza, là dove ci siamo cacciati in qualche vicolo cieco.
Il pregio dell’argilla è la sua malleabilità, il suo lasciarsi lavorare: dito di Dio è lo Spirito santo («digitus paternae dexterae»). Così avviene per noi quello che annunciamo della Madre di Cristo: «Lo Spirito santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra» (Lc 1,35).