Padova dopo Bitonci: tre domande per il futuro
Il prefetto Michele Penta, 68 anni, napoletano, già commissario straordinario del governo per le persone scomparse e un lungo curriculum che comprende anche un analogo ruolo a Bolzano fino allo scorso giugno, è il commissario ad acta incaricato di traghettare il comune di Padova fino alle prossime elezioni, presumibilmente in primavera.
Per la politica cittadina si apre intanto l'ennesima stagione delicata, su cui pesano come un macigno anche le implicazioni nazionali della rottura all'interno del centrodestra.
Che Bitonci si ricandidi appare scontato. Che i 5 stelle puntino al bersaglio grosso, anche. Cosa faranno centrosinistra e “moderati”, è il vero interrogativo dei mesi a venire.
Due anni e mezzo vissuti pericolosamente.
Tra dimissioni e “cacciate” di assessori, addii di consiglieri comunali accompagnati da un crescendo di minacce e violenze verbali di cui palazzo Moroni non conservava memoria, così come del divieto d'ingresso ai giornalisti (se non espressamente invitati) in quella che rimane pur sempre la “casa” di tutti i cittadini.
Se il metodo di gestione è stato discutibile – e lo stile di governo non è comunque questione da poco, tutt'altro – nemmeno il merito appare granitico.
Tra i risultati concreti Bitonci può elencare la nuova viabilità alla Stanga e poco altro. Al più una grandinata di ordinanze e divieti – dai provvedimenti anti accattoni alle ronde davanti alle cucine popolari, senza dimenticare i tour degli assessori davanti agli appartamenti che ospitavano richiedenti asilo, con tanto di foto su internet degli indirizzi – che magari aiutano a costruire l'immagine del sindaco forte, capace di ripulire la città, ma che alla prova dei fatti non hanno mostrato grande efficacia.
Padova, se la si guarda in maniera onesta e senza interessi di parte, non è oggi molto diversa dalla città che l'ormai ex sindaco aveva ricevuto in eredità.
I problemi sono gli stessi, e sono in massima parte condivisi con tutte le aree urbane più importanti d'Italia: l'invecchiamento della popolazione, il peso crescente dell'immigrazione, una microcriminalità difficile da arrestare, una rete di trasporti inadeguata, una struttura produttiva messa a dura prova dalla crisi, quartieri cresciuti senza adeguati servizi e troppo spesso privi di un'anima, di luoghi di aggregazione che non siano le parrocchie.
Sono problemi grandi e, al di là dei semplicistici slogan elettorali, sarebbe ingeneroso gettare la croce addosso ai sindaci – quelli di oggi e quelli di ieri – per non aver avuto la bacchetta magica. Semmai, anche nella repentina parabola della giunta Bitonci possiamo leggere un monito per tutti noi: chi è ancora convinto che basti un voto “per cambiare tutto”, generalmente finisce solo per ricevere amare delusioni.
Ci sono però alcune questioni specifiche, che Padova ha toccato con mano in questi ultimi anni e che oggi non è forse inutile provare a riepilogare nella speranza che magari possano diventare oggetto di una bella, intensa, appassionata campagna elettorale, come la città meriterebbe.
La prima attiene alla consapevolezza che il tempo non è una variabile secondaria e che saper “cogliere l'attimo” è di cruciale importanza per la vita di una comunità.
La telenovela sul nuovo ospedale – ma anche la questione auditorium, ma anche la rinuncia alla seconda linea del tram – lo dimostra meglio di tante parole: se ogni volta la politica pretende di ricominciare daccapo, l'unico risultato tangibile è la paralisi di ogni progetto. Che, inevitabilmente, ci rende meno attraenti come sistema-città, spalanca autostrade a chi è più lungimirante (si veda la crescita di Verona come polo sanitario) e alla fine mette a rischio un capitale storico, economico, scientifico di indiscusso valore. Padova se lo può permettere?
La seconda questione attiene alla dialettica tra il “palazzo” e le tante anime di una grande città.
Se una certa dose di decisionismo è inevitabile, anzi perfino auspicabile, pensare che basti il responso delle urne per governare è un errore madornale.
Il futuro di una comunità non può che plasmarsi nel confronto, nel dialogo, spesso anche nello scontro tra i mondi vitali che la animano.
Conta l'atteggiamento, ma contano anche le scelte concrete: un raffronto tra l'odierno panorama degli eletti e la ricchezza di competenze, provenienze, identità che si ritrovavano un tempo tra consiglio comunale e giunta, dovrebbe spingere ogni partito a un esame di coscienza. Padova, detto dei problemi, ha mille risorse: si può permettere il lusso di non valorizzarle in politica?
Almeno un terzo tema merita di essere accennato, ed è quello del ruolo che la nostra città intende giocare nel contesto veneto.
Oggi la programmazione europea vede nelle aree vaste uno dei suoi punti di forza, al punto da riversarvi un fiume di milioni di euro. Da tempo la competizione non si gioca più tra singoli stati ma tra aree dotate di dimensioni, popolazione, risorse accademiche e industriali, reti di infrastrutture adeguate al contesto delle sfide globali in cui siamo immersi.
Ebbene, la prospettiva di quella che un tempo si chiamava Pa-Tre-Ve è stata rifiutata.
L'idea “in piccolo” di fondere la città e i comuni dell'hinterland è ferma a qualche studio di fattibilità. La città metropolitana di Venezia, intanto, arriva a pochi chilometri in linea d'aria da piazza dei Signori, e avrà effetti che dobbiamo ancora comprendere in tutta la loro portata. Noi siamo rimasti fermi, e la domanda è ancora la stessa: Padova se lo può permettere?