Le suore di Valdobbiadene profughe dopo Caporetto
“Profughe dopo Caporetto. Suore, orfanelle e pazze nei territori occupati (1917-1918)”: è il titolo del capitolo scritto da Albarosa Ines Bassani nel volume Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra. Vi si racconta la sofferta vicenda delle due comunità di suore dorotee di Valdobbiadene: quella dell’orfanotrofio con cinque religiose e 13 orfanelle, e quella delle 24 suore infermiere dell’ospedale e del manicomio che, dopo l’invasione dei tedeschi, si trovarono sole con 50 ammalati e 300 donne pazze da accudire.
L’intervento di Albarosa Ines Bassani, storica dell'istituto Farina di Vicenza, anticipa alcuni passaggi del diario di suor Geltrude Bisson, conservato nell’archivio del Farina e in corso di pubblicazione.
La tragedia dell'ospedale e del manicomio
La tragedia dell’ospedale iniziò l’8 novembre 1917 quando il presidente dell’ospedale chiese alle famiglie dei malati e delle pazze di venire a prendersi i loro parenti. Poche lettere giunsero a destinazione e solo otto malati tornarono a casa. Il presidente diede ordine di dipingere sui muri esterni grandi croci rosse e poi si rintanò in casa; il direttore andò a chiedere aiuti a Treviso per trasportare i malati ma non riuscì più a fare ritorno a Valdobbiadene, perché le strade erano state sbarrate. Così le suore rimasero praticamente da sole, insieme all’economo e al giovane cappellano, don Anselmo Morellato, di Arsego, di gracile costituzione, che seguirà le suore infermiere nell’esilio di Palmanova e morirà di tisi il 25 ottobre 1918, pochi giorni prima della fine della guerra.
Il 10 novembre arrivarono i tedeschi, tra lo scoppio delle granate. Il ponte di Fener fu fatto saltare quando ancora vi stava passando l’ultimo treni da Belluno, fischiando disperatamente: la locomotiva cadde nel baratro e i vagoni rimasero sospesi nel vuoto.
Si dovette portare tutte le malate nei sotterranei, anche le pazze più furiose che, sedute al buio, si calmarono e rimasero lì per tre giorni tranquille. Ma non era facile trovare qualcosa da mangiare. Nei sotterranei cominciarono ad affluire profughi ed anche feriti tedeschi in uno stato pietoso. L’artiglieria italiana tirava anche con proiettili a gas asfissianti, che appestavano l’aria.
Finalmente il 4 dicembre i tedeschi concessero venti camion per evacuare l’ospedale: ne arrivarono solo tre. Le pazze di Valdobbiadene furono ospiti sgradite dell’ospedale di Vittorio, dove al 18 gennaio ne risultarono morte più di cento, di fame, di freddo e perché il medico italiano riteneva che i matti fossero solo un peso per la società. Il 4 luglio delle trecento iniziali ne sopravvivevano solo un centinaio, che furono evacuate a Palmanova.
Le orfanelle a Revine
La comunità delle orfanelle non ebbe vita più facile: quando Valdobbiadene fu occupata dai tedeschi rimasero tutte sequestrate e barricate in un sottoscala nei 25 giorni di bombardamento continuo, dopo il saccheggio dei militari. Il 5 dicembre riuscirono a montare su un camion e a evacuare, sotto i colpi dei cannoni del Grappa, fino alla canonica di Revine, dove il parroco le accolse mettendo a disposizione il poco che aveva e che gli invasori non avevano già portato via: una stanzetta, un po’ di fieno, qualche patata, un pezzetto di formaggio. Qui per quasi un anno le profughe dovettero inventare ogni possibile espediente per riuscire a sopravvivere e non morire di fame, chiedendo la carità di paese in paese. Se l’occupazione tedesca fu terribile ancora peggiore fu quella degli austriaci, giunti in marzo a sostituire gli alleati inviati in Francia, perché gli stessi soldati erano ridotti alla fame.
E in autunno arrivò anche la spagnola, che fece più morti della stessa guerra…