Archeologia industriale. Se il passato diventa risorsa per il futuro
A Roma, una vecchia centrale elettrica aperta a inizio Novecento è diventata uno dei più importanti musei della città. Nel Veneto non mancano i siti storici dismessi dalle industrie produttive che possono diventare vere risorse per turismo, cultura e nuova economia
Da qualche anno esiste a Roma un museo che pochi conoscono, installato in un sito d’eccezione, una storica centrale elettrica di inizio Novecento eretta in stile liberty: è il museo Centrale Montemartini (nella foto). Vi trovano sede stabile centinaia di statue e altri reperti dell’antica Roma: è infatti una sorta di seconda sede dei musei capitolini dopo quella celeberrima del Campidoglio.
Gli spazi della centrale hanno dato la possibilità di esporre collezioni con una logica diversa: non solamente i pezzi più preziosi ma i ritrovamenti di un’intera area o i mosaici di una villa.
Tra i fiori all’occhiello, anche tre carrozze riccamente decorate dello splendido treno privato voluto da Pio IX nel 1848 per andare da Roma ad Albano. L’importanza della Centrale Montemartini non è solo avere dato accoglienza a opere d’arte: il suo recupero è al centro della valorizzazione di un’area di precoce sviluppo industriale ora in disuso, lungo il Tevere: uscendo dal museo, in 15 minuti a piedi si arriva alla piramide Cestia, e con altrettanti in direzione opposta si è nientemeno che alla basilica di San Paolo.
Si può intuire come, attorno a questo sito, possa impostarsi la valorizzazione di un intero quartiere. Il recupero dei siti produttivi dismessi viene chiamato “archeologia industriale”, termine probabilmente inappropriato perché riferibile tanto ad antichi luoghi produttivi, ad esempio l’Arsenale dei veneziani, quanto a fabbriche novecentesche.
La Camera di Commercio di Padova ha di recente aderito a un progetto europeo, denominato Inducult 2.0, che, come dice il nome, vuole unire “industria” e “cultura”: l’archeologia industriale ne è il cardine, anche se non esaurisce il progetto, che intende sviluppare anche la “cultura dell’industria”.
In uno dei seminari promossi da Inducult, Fabrizio Panozzo, docente a Ca’ Foscari, ha infatti chiarito come l’industria sia un atto culturale in sé in quanto atto dell’uomo. Un uomo che decide di organizzare una produzione in un luogo delimitato e chiuso, mentre l’agricoltura si fa all’esterno. L’industria modifica il luogo in cui si agisce non solo con gli artefatti materiali ma anche con le abitudini (ad esempio gli orari di lavoro), i rituali, i simboli e così via.
Se si pensa all’industria come cultura, secondo Panozzo ci sono due principali approcci, quello della “conservazione” e quello della “innovazione”: nella prima si ha la museificazione degli spazi e degli artefatti, i musei etnografici, e anche gli archivi d’impresa, la cui importanza non è ancora del tutto compresa dalle stesse aziende che li possiedono. L’innovazione, invece, significa alleanza con i processi “attivi nel contemporaneo”, con la creatività. Una “artificazione”, degli spazi che li rende vivi e protagonisti di processi ideativi, cognitivi e, appunto, innovativi.
In questo schema, la grande Centrale Montemartini occupa più caselle ma rimane un museo, benché splendido e duplice, d’arte e dell’industria, memoria di un’epoca con la sua architettura e le sue macchine: ma anche solo così è strumento di rilancio di un quartiere. Nel Veneto delle tante industrie dismesse spazi così non mancano, ma si potrebbe puntare di più sull’innovazione: è questa infatti che ha fatto grande l’economia del Nordest.
Scarica in allegato lo speciale Edilizia e Restauri sugli esempi di archeologia industriali del veneto.