Due Palazzi: la storia di Alfredo, che ha scelto la famiglia
La mattinata del 27 dicembre in cui al carcere Due Palazzi è stata aperta la Porta della misericordia, si è conclusa con l'ascolto delle storie di tre detenuti: Alfredo (sacrestano ufficiale della parrocchia del carcere), Armand Davide e Gaetano. Alfredo, in particolare, ha raccontato come l'avere una famiglia – da latitante – ha profondamente cambiato la sua vita, fino a fargli decidere di costituirsi. Ora sta scontando la sua pena nel carcere di Padova. Nel cuore porta la famiglia, che è rimasta in Colombia: Gloria, la moglie, e i tre figli, Luigi, Isabella e Veronica. «Gesù è stato umiliato, maltrattato e crocifisso... ma ce l'ha fatta – ama ripetere Alfredo – Perché non posso farcela anch'io?».
Come avviene ogni quarta domenica del mese, anche il 27 dicembre due gruppi parrocchiali – Chiesanuova e Villa di Teolo – sono entrati nel carcere Due Palazzi per celebrare l’eucaristia e ascoltare la testimonianza di alcuni detenuti. «Per ripetere la storia di san Francesco – ha ricordato il cappellano don Marco Pozza – che ha ammansito il lupo e poi è andato a Gubbio, ha bussato alla porta dei cittadini e detto loro di fidarsi, perché aveva toccato con mano questo cambiamento. Così, quando il lupo è morto, i cittadini hanno pianto ».
Nella festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe… a raccontare una storia “di famiglia” ci ha pensato Alfredo, sacrestano ufficiale della parrocchia del carcere (che, proprio in occasione dell’apertura della Porta della misericordia, ha ricevuto una pergamena con “benedizione speciale” da parte del vescovo Claudio).
«Quando avevo sei/sette anni ho visto un film western in cui c’era una rapina. Quasi per gioco o per scherzo quel film mi è rimasto impresso. Ho pensato: quando divento grande, anch’io rapino le banche, faccio tanti soldi, mi costruisco una bella vita, vado al ristorante… Quest’ossessione non mi ha mai lasciato». Nel 1975 Alfredo, che ha già all’attivo qualche furtarello, decide di rapinare una banca con tre amici. Li prendono e li arrestano. «Mi mancavano due giorni per diventare maggiorenne, quindi finisco nel reparto minorile. Non mi sembrava di essere in carcere… Poi, al compimento dei 18 anni, entro nel braccio penale a Treviso. Ci sto tre anni e non sono stati facili. Se non hai voglia di re-inserirti, in carcere senti parlare solo di furti, rapine, omicidi, estorsioni… Crimini e basta». Alfredo esce, ma dopo pochi mesi compie un’altra rapina.
Vent’anni dopo un pentito lo accusa di dieci rapine. Viene arrestato e portato in carcere a Treviso. Per un errore nella convalida di arresto dopo dieci giorni lo rilasciano. Ma teme quel pentito e sceglie la latitanza. Prima a Milano e poi all’estero. «Vivevo male. La malavita non paga. Ma si può cambiare se si vuole».
Va in Colombia «il paradiso dei latitanti. Ma quando arrivo scopro che c’è il disordine assoluto: ognuno fa quello che vuole. Per due mesi vivo in un alberghetto, ma i soldi calano. Il rapinatore non posso farlo e così cerco un lavoro nei locali come lavapiatti. Poi ho fatto il barista e sono diventato cameriere. E ho conosciuto Gloria, mia moglie. Lei mi ha fatto cambiare, così come la nascita del nostro primo figlio, Luigi. Non ho potuto assistere al parto e non ho potuto dargli il mio cognome, dato che non avevo identità. Ma quando l’ho visto, ho capito che era un regalo di Dio. La mia vita è cambiata. Poi sono nate Isabella e Veronica. Anche a loro non ho potuto dare il mio cognome».
E poi arriva il momento in cui Luigi chiede perché non ha il cognome del papà. «Sto sistemando i documenti, gli rispondo. Poi me lo richiede, così decido di spiegare ai miei figli che sono un latitante, ho rapinato le banche, sono stato condannato… non posso dare loro il mio cognome. Luigi a quel punto mi chiede solo una cosa: hai ucciso qualcuno? Rispondo di no e decido che per dare loro il mio cognome, devo costituirmi».
Passa un po’ di tempo prima che Alfredo decida di andare a costituirsi («avevo bisogno di riconciliarmi con me stesso»). Dopo aver superato diversi problemi anche con l’ambasciata italiana in Colombia, prende un aereo che lo porta in Italia. Al carcere Due Palazzi. «Dove all’inizio tutti pensano che sia un pazzo, dato che mi sono costituito. Ma io rispondo: siete voi che non avete capito niente, io lo rifarei per i miei figli. L’esperienza in Colombia, dove ho patito la fame, mi ha rieducato. Poi qui ho trovato tante persone che mi hanno aiutato. Io lo dico sempre: Gesù l’hanno umiliato, maltrattato e crocifisso… ma ce l’ha fatta! Perché non posso farcela anch’io?».