Testamento biologico. Una norma, alcune luci, molte ombre
Spunti interessanti come l’attenzione alla formazione continua e la comunicazione come tempo di cura. Ma sbilanciarsi sull’autonomia del paziente mette a repentaglio l’autonomia professionale dei medici.
L’approvazione accelerata nel fine legislatura, mediaticamente urlata e con la spaccatura parlamentare su una materia complessa e ricca di sfumature, rischia di favorire un’incomprensione dei fondamentali della legge sul “biotestamento”, termine peraltro inesatto poiché il testamento ha valore in morte e non in vita.
Tra chi attende le prossime elezioni per cassare il provvedimento e chi ne fa trampolino per l’eutanasia, non rimane che proseguire il dibattito su tematiche sempre più impattanti in prospettiva, per le quali urge una nuova educazione civica più che slogan ideologici.
Nonostante non manchino spunti interessanti come l’attenzione alla formazione continua, la comunicazione come tempo di cura, tutto il primo articolo, caratterizzato da un lungo retorico preambolo, sembra sbilanciato sull’autonomia del paziente, che mette a repentaglio l’autonomia professionale dei medici, a loro volta salvaguardati sul piano giuridico ma forse marginalizzati. Sempre questo primo articolo si pronuncia in modo secco sull’idratazione e l’alimentazione, considerati «ai fini della presente legge (…) trattamenti sanitari» (art. 1.5) e non ammette la possibilità per le strutture che non si riconoscano nella legislazione, comprese quelle cattoliche, di operare una «obiezione di coscienza» come istituzioni.
Sebbene sia appropriata l’indicazione dell’art. 2 sulla terapia del dolore, essa rischia di ingenerare l’idea che queste pratiche finora non siano state portate avanti nei centri di cura, quando nel suo dovere professionale l’équipe curante ne fa l’ossatura del proprio quotidiano impegno. Se il terzo articolo approfondisce il consenso dato per minori o per figure incapaci, l’articolo quarto entra nel vivo della redazione delle disposizioni anticipate di trattamento, in cui è prevista la figura di un fiduciario a sua volta revocabile.
L’aspetto più critico riguarda l’inserimento delle Dat, pur con informazioni mediche, al di fuori del contesto della relazione terapeutica come invece retoricamente enunciato all’inizio del dispositivo di legge. In altre parole una disposizione generica, fuori da un quadro clinico-patologico ben definito, rischia di essere vuota o al limite anche dannosa essendo giuridicamente vincolante e legando così le mani ai curanti, specie se redatta molti anni prima del reale utilizzo. Tale elemento in parte è recuperato dall’art. 5 che parla di pianificazione condivisa delle cure come percorso di alleanza terapeutica nello svilupparsi di una patologia degenerante.
Un diverso ordine degli articoli potrebbe fare maggiore chiarezza su questi passaggi, evitando il ricorso a Dat troppo burocraticamente generiche.
In questi articoli si specifica anche la modalità di deposizione delle Dat presso gli uffici comunali o presso le strutture sanitarie, tutta poi da chiarire sul piano concreto, dall’impatto sui medici di base alla conservazione di un archivio.
Leopoldo Sandonà
Nereo Zamperetti