Sui luoghi del terremoto per non dimenticare
Un gruppo di giornalisti italiani ha visitato nei giorni scorsi Pescara del Tronto per toccare con mano le ferite profonde lasciate dal sisma del Centro Italia. «Il dopo terremoto fa emergere tutta la rabbia – ha detto il vescovo di Ascoli Piceno, mons. Giovanni d'Ercole, guida d'eccezione – Dal terremoto non si rinasce ma si nasce. È un’altra cosa, perché dentro cambia qualcosa»
Briciole. Nient’altro. Di mattoni, di vita, di ricordi, di storia, di comunità, di futuro. Pochi minuti e lo scenario si trasforma irrimediabilmente.
È successo con il terremoto dello scorso 24 agosto e con la seconda forte scossa del 30 ottobre. Il centro Italia massacrato da una forza che distrugge.
Norcia e Amatrice sono i nomi che più tornano alla ribalta e lì si sta lavorando, anche grazie a molto volontariato, per riportare un po’ di normalità. Ma la devastazione è diffusa. In alcuni casi con pochissime o nulle possibilità di recupero.
Così è per Arquata del Tronto e ancor più per la frazione di Pescara del Tronto (un centinaio di persone, 51 vittime), in provincia di Ascoli Piceno, dove l’intensità di distruzione è stata calcolata al massimo: 12 della scala Mercalli. Il paese raso al suolo. Ora al posto di un piccolo paradiso abbarbicato sull’Appennino marchigiano rimane una “discarica”: nulla si può recuperare se non detriti. I siti dei paesi, a distanza di quasi un anno, sono off limits; si può andare solo accompagnati dai vigili del fuoco. Gli abitanti sono ospitati nel capoluogo o lungo la riviera Adriatica.
«Ma siamo gente di montagna – ricorda il sindaco tra le lacrime – e molti anziani sono morti non per il terremoto, ma dopo. Ci dicevano: che campiamo a fare? E si sono lasciati andare»: hanno perso tutto, comprese la speranza e la motivazione per ricominciare. Ad Arquata le casette sono arrivate solo una quindicina di giorni fa ma non sono ancora agibili. Nel frattempo sono passati un inverno, con tre metri di neve che hanno sgretolato il resto, e tanti giorni di disperazione e solitudine. In più una macchina burocratica che ha la forza di «un terremoto peggio di quello vissuto», commentano gli (ex) abitanti.
«Il dopo terremoto fa emergere tutta la rabbia – sottolinea mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno, anche lui “terremotato” e subito in prima linea quella notte di agosto – Dal terremoto non si rinasce ma si nasce. È un’altra cosa, perché dentro cambia qualcosa». E se c’è speranza nella forza vincente dell’unità, le parole del vescovo tradiscono un senso di smarrimento che ha attraversato molte vite incontrate in questi mesi. «Ai preti ho chiesto solo di ascoltare e stare vicini alla gente».
Ci ha accompagnato lui, il vescovo terremotato, lungo la via che portava a Pescara del Tronto: una piccola schiera silenziosa di giornalisti di tutta Italia, ammutoliti dall’evidenza della distruzione. Con una raccomandazione: «Non è una visita, qui si fa un pellegrinaggio della memoria, del dolore ma anche della speranza. Alla sofferenza (e al nulla che rimane, ndr) ci si può avvicinare solo con rispetto».
Di fronte alla “sciara di detriti” là dove c’era Pescara del Tronto ora c’è spazio solo per il silenzio… e la commozione. Eppure in quel deserto la speranza non è morta: c’è una chiesa presente tra la gente; ci sono persone che stanno riscoprendo il valore della comunità; c’è un modello sociale da far ricostruire e ci sono piccoli miracoli. Quelli che si leggono negli occhi inondati di lacrime di don Vincenzo Finocchio, parroco di Caldarola, in provincia di Macerata, pellegrino tra altre macerie.
«Sono un parroco terremotato anch’io, ora vivo in una roulotte» dice con la voce che si stringe in gola, mostrando la foto di ciò che rimane della sua chiesa, orgoglioso per quei resti di arco di trionfo che hanno retto alla neve. Il terremoto apre ferite profonde – racconta – ma quanta nuova umanità: famiglie che tornano a parlarsi, arrabbiati con la chiesa che tornano a pregare, tanta solidarietà. E da tutti sale una sola preghiera: non dimenticateci!».