Crisi, licenziamenti, morti. Flavio Felice: “C’è ancora una scarsa cura della dignità del lavoro”
Durante la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, si era alzata forte la richiesta di un lavoro “libero, creativo, partecipativo e solidale” attraverso il quale ogni essere umano può esprimere e accrescere la dignità della propria vita. Un’istanza che non si affievolisce, a maggior ragione alla luce di quanto ogni giorno viene registrato circa la situazione lavorativa e occupazionale di molti italiani. Ne abbiamo parlato con Flavio Felice, che proprio a Cagliari aveva puntato il dito contro “il lavoro che non vogliamo”.
È stato un inizio di 2018 difficile quello del mondo del lavoro italiano. Non passa giorno senza che vengano alla luce piccole e grandi crisi aziendali o ci siano notizie di licenziamenti e di incidenti sul lavoro, purtroppo anche mortali. Questa situazione si verifica perché nel nostro Paese “c’è ancora una scarsa cura della dignità del lavoro”. Ne è convinto Flavio Felice, professore ordinario di Storia delle dottrine politiche all’Università del Molise e membro del Comitato che ha organizzato la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, svoltasi a fine ottobre a Cagliari.
Professore, facciamo un passo indietro e torniamo alla Settimana sociale di Cagliari. Perché la scelta della denuncia come uno dei quattro “registri comunicativi” e perché è necessario continuare a percorrerlo?
Per poter deliberare, così come per esprimere dei giudizi e avanzare delle proposte è necessario conoscere i termini del problema.
Per noi “denuncia” non è stata e non è una mera lamentela ma un’analisi della situazione problematica del lavoro di oggi. La denuncia non è un atto d’accusa ma è l’individuazione della situazione problematica:ciò significa conoscere il problema, analizzarlo, criticarlo, avanzare delle ipotesi di soluzione per poi scartare quelle che ovviamente non appaiono adeguate. Per questo
denuncia è sinonimo di analisi e conoscenza. Per poter parlare, anche come Chiesa, da persone che non si improvvisano ma si documentano.
Dal suo osservatorio, come ha inciso quanto emerso a Cagliari?
All’interno del mondo ecclesiale c’è stato un impatto molto importante. Dopo Cagliari, noi tutti del Comitato siamo stati contattati per andare a raccontare e proseguire l’opera della 48ª Settimana sociale in diocesi, parrocchie e movimenti. C’è una grande voglia da parte dei laici cattolici di essere parte di questo dibattito, di questa riflessione comune.
E l’impatto all’esterno del mondo ecclesiale?
Qui sorgono i problemi. Bisogna riconoscere che, almeno in termini di visibilità, non c’è stato un impatto particolarmente significativo. Certamente è più difficile avere riscontri nel mondo della politica, presso la business community, presso il mondo finanziario. E i risultati, se ci saranno, si vedranno nel lungo periodo. Abbiamo avuto un riscontro positivo da parte di chi è venuto ospite delle Settimane sociali; persone che immediatamente dopo la loro presenza hanno fatto sentire la loro voce. Ma al momento non si è tradotta in provvedimenti, e forse sarebbe illusorio aspettarselo. In ogni caso, nel mono extraecclesiale un seme è stato piantato: va coltivato, curato, tenuto sotto controllo.
Anche il 2018 è partito con crisi aziendali, incidenti e morti sul lavoro, precarietà… Quel lavoro “libero, creativo, partecipativo e solidale” per tutti sembra ancora lontano…
Lo spaccato che emerge è quello di un Paese che sta retrocedendo dal punto di vista della qualità inclusiva e del grado di democrazia interna. L’Italia è un Paese le cui Istituzioni non garantiscono più quella prevedibilità tipica dei sistemi democratici: cioè la certezza del diritto, l’idea che il lavoro sia una condizione necessaria perché un Paese possa progredire, che la produttività sia perseguita come un bene comune perché possa essere la condizione che fa nascere nuovo lavoro…Sembra di vivere in una società che si sta rifeudalizzando, e il dato sulle modalità con cui gli italiani in buona parte cercano il lavoro (secondo Eurostat nel terzo trimestre 2017 l’81,9% lo ha fatto attraverso amici, parenti e sindacati e solo il 25% recandosi ad un ufficio pubblico, ndr) credo sia sintomatico. L’Italia ha sempre avuto un carattere più familistico rispetto ad altri Paesi, ma questo dato dimostra che il grado di qualità inclusiva delle nostre Istituzioni è ancora abbastanza basso.
Servirebbe un cambio di passo…
La democrazia necessita di Istituzioni sane, inclusive, che permettano di crescere in termini anche di mobilità sociale. Il fatto che le crisi aziendali non vengano risolte vuol dire che c’è una classe dirigente locale e nazionale che non riesce a dialogare con la comunità d’impresa o lo fa in maniera non adeguata.
Gli incidenti sul lavoro sono purtroppo la dimostrazione di una scarsa cura della dignità del lavoro, di quella qualità del lavoro che abbiamo rivendicato a Cagliari.
Tutti questi fattori sono l’esatto opposto di una società in movimento ascendente, dove il merito è premiato e ciò che conta è la capacità di risolvere i problemi. La situazione socio-politica-economica dell’Italia ci dice di come l’Italia stia retrocedendo nel suo grado di democrazia e inclusività sociale.
Questo in un contesto nel quale non sembra esserci spazio alla tematica lavoro nel dibattito pubblico, neppure in campagna elettorale…
Dobbiamo uscire da una situazione mentale nella quale purtroppo noi italiani siamo entrati da almeno 20 anni: una sorta di tunnel nel quale la politica è la rappresentazione delle promesse più deliranti, delle ipotesi più strampalate, del chi la dice più grossa. Sappiamo che questo non è politica, ma riteniamo che in questa fase sia giustificabile. La campagna elettorale non può essere il momento della bugia e vorrei che i cittadini italiani fossero critici rispetto ad una simile deriva. Dovremmo pretendere che proprio in campagna elettorale i politici fossero i più sinceri, onesti e realistici possibile. Invece giustifichiamo tutto, pensando che la politica non può che essere questo.
Serve un sussulto di orgoglio, di volontà di verità, di realismo.
Da dove ripartire?
Dobbiamo fare autocritica come italiani, come cattolici. Abbiamo la capacità di dire ‘in politica non si raccontano delle bugie nemmeno in campagna elettorale. Anzi, soprattutto in campagna elettorale’?Dobbiamo chiedere che vengano dette cose sensate, che interessano la nostra vita. Se ciò non avviene la responsabilità non è solo dei politici ma della società civile italiana che sembra dire alla politica che tutto è ammesso, tutto è consentito. E non scandalizzandoci più di tanto, arriviamo in fondo ad assolverla.