Armi tricolore. L'export fuori controllo di cui non andare fieri
«Chiedo che al G20 si guardino in faccia e si dicano “chi di noi ha venduto le armi?” Io questo l’ho già detto, e sono stato ridicolizzato, ma non si fa interposizione nei conflitti andando ad armare altre persone». Così il segretario della Cei, Nunzio Galantino, al programma di Lucia Annunziata, su Rai3. E nella lista di chi vende armi a mezzo mondo, c'è anche l'Italia. Purtroppo.
MK82, MK83, MK84. Si nasconde un mondo dietro queste tre sigle.
Forse positivo per il Pil italiano e il fatturato di qualche azienda. Certamente preoccupante per la sicurezza nazionale e non annoverabile tra il made in Italy di cui andare fieri.
Quelle tre sigle indicano altrettanti modelli di bombe aeree a caduta libera che dagli stabilimenti sardi della RWM Italia (azienda bresciana, appartenente al gruppo tedesco Rheinmetall) sono arrivate fino all’Arabia Saudita. E da lì sono state poi utilizzate in Yemen in una campagna mai autorizzata dall’Onu e anzi condannata dalla comunità internazionale contro l’avanzata del movimento sciita houthi. Di quelle bombe (poco più di 5mila esemplari per un totale di oltre 70 milioni di euro) è stato possibile rintracciare nei rapporti ufficiali quantità esportate e Paese destinatario.
Ma accanto ad esse, esistono molte altre forniture e autorizzazioni rilasciate dal governo italiano di cui scovare notizie è diventato sempre più complesso. Anzi, impossibile. Ancora una volta un paradosso nazionale: perché l’Italia ha una legge molto avanzata in tema di trasparenza – la Legge n.185 del 1990 – che proprio quest’anno festeggia il 25° anniversario. Ma la prassi dei vari governi l’ha nel tempo ridotta, celando informazioni cruciali. A tutto vantaggio della lobby armiera.
Un filo diretto con i regimi
Proprio in base a quella legge, presa tra l’altro come modello anche per la normativa europea, le esportazioni sono vincolate a precise regole e gli invii verso Paesi in conflitto armato o responsabili di violazioni dei diritti umani sarebbero vietati.
Ma, la realtà, rivelata grazie al fondamentale contributo delle associazioni della Rete Disarmo, è di tutt’altro colore: in un quarto di secolo, l’Italia ha autorizzato esportazioni per 54 miliardi di euro e consegnato armamenti per oltre 36 miliardi.
«Oltre la metà di esse – spiega Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio OPAL di Brescia, tra i massimi esperti del tema – ha riguardato Stati non appartenenti né alla Ue né alla Nato, esterni quindi alle alleanze politico-militari del nostro paese. Un dato preoccupante se si considera che la legge 185/90 impone che le esportazioni di armamenti siano conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia».
Se poi ci si concentra sull’ultimo quinquennio, lo scenario ha tinte ancor più fosche: le autorizzazioni all’export extra-Ue e Nato salgono al 62% (9 miliardi contro 5,4) e tra i primi 20 Paesi destinatari, solo sette sono “democrazie complete” secondo i criteri del Democracy Index dell’Economist: cinque sono regimi autoritari e due ibridi, destinatari rispettivamente di 4,5 e 1,03 miliardi di euro di autorizzazioni mentre i Paesi democratici si fermano a 3,5. La classifica è guidata dai regimi di Algeria e Arabia Saudita.
Se non fosse per la presenza Usa, anche gli Emirati Arabi Uniti sarebbero sul podio. Non a caso, le esportazioni in Medio Oriente e Nord Africa hanno subito una crescita del 33% tra 2009 e 2014. Un flusso che non aiuta a ridurre il numero di quanti, da quei Paesi, chiedono asilo all’Europa.
Letta vs Letta
«La relazione che la Presidenza del Consiglio deve inviare ogni anno al Parlamento – spiega Maurizio Simoncelli, vicepresidente di Archivio Disarmo – è diventata man mano più lacunosa e di difficile lettura da almeno 15 anni. Non appare più il tipo di armi e sistemi militari venduti, né il nome delle aziende per singola vendita e sono scomparse le operazioni bancarie autorizzate».
Risultato: scoprire quali tipi di aerei, elicotteri, mezzi terrestri e bombe sono state effettivamente esportate e quali siano i destinatari finali è un lavoro sempre più complesso. «Questo – spiega Beretta – costringe i parlamentari a fare decine di interrogazioni che spesso non trovano risposta».
Il punto di svolta, nel 2008, quando come sottosegretario alla Presidenza, Enrico Letta (governo Prodi II) lascia il posto allo zio Gianni (governo Berlusconi IV): con il nipote vi erano stati segnali di trasparenza, confronto periodico con le associazioni pacifiste e una relazione aggiuntiva sul commercio delle armi.
Con lo zio le tabelle diventano omissive e si cancella l’elenco delle singole operazioni bancarie. «Oggi – aggiunge Beretta – è quindi praticamente impossibile conoscere dalla relazione governativa gli armamenti esportati dall’Italia».
Andreotti meglio di Renzi
E in questa situazione, fa effetto sentire le associazioni pacifiste rimpiangere la trasparenza di Andreotti, quando la relazione governativa «riportava in chiara successione tutte le informazioni necessarie per esercitare effettivamente il controllo parlamentare».
Di quella trasparenza non c’è traccia nella prima relazione del governo Renzi, nonostante due tomi da 1281 pagine. Il 22 settembre, i rappresentanti di Rete Disarmo hanno quindi incontrato il sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, per avanzare alcune semplici richieste.
Due le principali: reintrodurre il Paese destinatario nell’elenco delle singole autorizzazioni rilasciate dalla Farnesina e, soprattutto, far ripristinare dal ministero dell’Economia l’elenco di dettaglio delle operazioni svolte dalle banche.Certo, se anche il Parlamento tornasse ad esaminare la relazione governativa non sarebbe una cattiva notizia: dopo otto anni, nel 2015 finalmente qualcosa si è mosso. Ma le commissioni competenti vi hanno dedicato però una sola seduta durata meno di un’ora.
Merito della società civile
Momento cruciale per il cambio di passo fu, nel 1988, l’avvio della campagna “Contro i mercanti di morte” da parte di associazioni e movimenti cattolici (Acli, Mani Tese, Mlal, Missione Oggi e Pax Christi)
Una legge che ha fatto epoca
Dagli anni Settanta al 1990: ci sono voluti quasi vent’anni di pressioni della società civile perché si arrivasse a una legge sul controllo delle esportazioni di armamenti.
Prima di allora, in Italia, il tema era regolato ancora, salvo poche modifiche, da un Regio decreto del luglio 1941 (firmatari Mussolini, Ciano e Grandi), che imponeva il segreto di Stato e, in epoca repubblicana, impediva ogni forma di controllo parlamentare. Momento cruciale per il cambio di passo fu, nel 1988, l’avvio della campagna “Contro i mercanti di morte” da parte di associazioni e movimenti cattolici (Acli, Mani Tese, Mlal, Missione Oggi e Pax Christi). Il 9 luglio 1990 l’approvazione definitiva della legge 185.
Una novità assoluta, nel panorama mondiale, perché affidava alle due Camere un ruolo centrale e fissava precisi vincoli al governo sulle esportazioni: stabilì che dovevano essere “conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia” e che andavano regolamentate “secondo i principi della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
Vietato quindi l’export verso Paesi in confitto armato o sottoposti a embargo, verso governi responsabili di violazioni dei diritti umani, quando esiste un contrasto “con i fondamentali interessi della sicurezza dello Stato, della lotta contro il terrorismo” e, più in generale, “quando mancano adeguate garanzie sulla definitiva destinazioni dei materiali”.
Paletti che forse scontentavano l’industria bellica ma che subordinavano le vendite all’interesse nazionale. Per questo, la 185 impone al governo specifiche procedure di rilascio delle autorizzazioni alla vendita delle armi. Al tempo stesso, l’esecutivo ogni anno deve inviare al Parlamento una dettagliata relazione con i documenti inviati dai ministeri competenti.
Il dramma dello Yemen
L’intervento militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro lo Yemen ha già prodotto danni irreparabili: più di 4 mila morti e 20 mila feriti (la metà civili), oltre un milione di sfollati. Anche grazie alle nostre armi
Le Ong: stop alle armi italiane alla coalizione saudita
Un appello al governo Renzi di rispettare la legge 185/90 interrompendo la vendita di armi italiane ai Paesi della coalizione saudita che da cinque mesi bombarda lo Yemen.
«Questa nuova pagina che destabilizza il Medio Oriente è fuori da ogni legalità internazionale, e va fermata». La richiesta di Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, fa seguito a un comunicato pubblicato a settembre da Amnesty International, Rete Italiana Disarmo e l’Osservatorio sulle Armi Leggere e le Politiche di Difesa e Sicurezza (Opal).
L’intervento militare della coalizione guidata dall’Arabia Saudita contro lo Yemen ha già prodotto danni irreparabili: più di 4mila morti e 20mila feriti (la metà civili), oltre un milione di sfollati. La popolazione yemenita – 21 milioni di persone – necessita di aiuti urgenti, vista la grave scarsità di acqua e di cibo causata dai bombardamenti indiscriminati. E la Croce Rossa Internazionale parla già esplicitamente di “catastrofe umanitaria”.
Alla richiesta di 23 associazioni internazionali, si è aggiunta nei giorni scorsi anche quella dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che ha rinnovato l’appello per un’inchiesta indipendente e imparziale sui possibili crimini di guerra commessi dalle vari parti in conflitto.
«La vicenda in Yemen ci riguarda», spiega Vignarca. «Da anni, armi italiane raggiungono, con tutti i crismi delle autorizzazioni, aree del mondo che sarebbero vietate per legge. I Paesi della penisola araba – Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in testa – sono regimi dove il rispetto dei diritti umani è nullo. I governi sono coinvolti nella destabilizzazione dell’area mediorientale, e secondo molti analisti hanno foraggiato l’Isis, almeno fino a poco tempo fa».
Quell'alleanza ipocrita tra aeronautica e Unicef Italia
Otto bambini uccisi ogni giorno dall’inizio del conflitto, 605 quelli feriti, quasi 400 reclutati nelle file dei combattenti, 537 mila a rischio di grave malnutrizione e 10 milioni che necessitano di assistenza umanitaria: sono atroci i numeri sull’impatto del conflitto nello Yemen diffusi dall’Unicef Internazionale nel suo rapporto “Yemen: Childhood Under Threat”.
Ma, nel frattempo, la sezione italiana dell’Unicef, non sembra accorgersene. E annuncia in pompa magna una “partnership per i bambini” con l’Aeronautica militare, suggellata dalla nomina come “Goodwill Ambassador” dell’astronauta Samantha Cristoforetti, in occasione del 55° anniversario della Pattuglia acrobatica nazionale, cui hanno preso parte, tra gli altri, anche i velivoli della Royal Saudi Air Force, quella che appunto sta bombardando lo Yemen.
L’incongruenza con quanto le regole Onu stabiliscono per le loro agenzie (che sono tenute ad agire in maniera indipendente e imparziale) non è sfuggita alle organizzazioni pacifiste. «Come si possono denunciare gli attacchi contro bambini inermi nello Yemen e poi collaborare con le Forze armate di uno Stato, tanto più durante un evento con le pattuglie di un Paese aggressore?» domanda Piergiulio Biatta, presidente di Opal.