40 anni con i minori “fragili”. Dal 1983 a Calvene don "Beppe" Gobbo accoglie bambini e adolescenti fragili nelle comunità
Calvene Don “Beppe” Gobbo dal 1983 si occupa di accogliere bambini e adolescenti che si trovano in situazioni di disagio nella cooperativa Radicà, prima di una serie di comunità nate anche a Schio, Bassano, Montebelluna. «Tra i tanti ragazzi incontrati negli anni, ricordo un piccolo nomade di 8 anni – oggi ne avrà 35 – aveva gli occhi svegli e si fece il segno della croce prima di iniziare il pasto»
«Alcuni dei ragazzi passati nelle nostre strutture sono riusciti a farcela. Ne ricordo più di qualcuno: chi si è laureato, chi è diventato imprenditore, chi è “semplicemente” tornato a una vita normale. Una delle storie che mi piace raccontare è quella di un bimbo nomade, al tempo aveva otto anni, oggi ne avrà 35. È rimasto con noi per più di sei mesi, lasciato solo probabilmente dalla veloce fuga della sua comunità da qualche accampamento, mentre lui era impegnato a chiedere l’elemosina. È cresciuto in modo genuino, andando a scuola; era molto sveglio, aveva una mente pronta e belle intuizioni. Poi tornò con la madre naturale, oggi è sposato e vive nella zona di Mantova». Così racconta don Giuseppe Gobbo, per tutti don Beppe, che da quarant’anni si occupa di accoglienza di minori in situazioni di disagio e ha fondato la cooperativa Radicà, in comune di Calvene, ai piedi dell’altopiano di Asiago. Nato a San Germano dei Berici il 12 novembre 1945, quinto di sette fratelli, don Beppe cresce in una famiglia non particolarmente religiosa («nel mio albero genealogico non c’erano né preti, né suore») che si sposterà a Zanè, nell’Alto vicentino, per lavorare i campi «stando tutti uniti». «A ventidue anni cominciai a pensare seriamente al mio futuro – racconta don Beppe nel libro Radicà - La concretezza di un sogno comune (Grafiche Italprint, agosto 2023, pag. 126) pubblicato in occasione del quarantesimo di attività – Decisi che era arrivato il momento di dedicarmi a qualcosa d’altro che non fosse il lavoro soltanto. O meglio fosse il lavoro orientato al bene comune. (…) Confesso che il giorno più triste del mese per me era proprio quello in cui ricevevo la paga, perché mi convincevo sempre di più che, mettendo dei soldi in quella busta, chi mi dava da lavorare in realtà cercava di imbrigliare tutta la mia passione e la mia inventiva, e non ripagava certo le mie ambizioni più recondite e vere».
Ed è così che il giovane Giuseppe, dopo aver fatto il contadino, il meccanico e il marmista, inizia a coltivare l’idea di diventare prete. Il seminario a Vicenza, l’esperienza in parrocchia, l’ordinazione nel 1978, il servizio come cappellano a Schio e Bassano: è in quest’ultimo contesto (erano gli inizi degli anni Ottanta) che il novello prete coglie il disagio presente nella società. «Era un momento di cambiamento sociale, si affacciavano problematiche nuove con un raddoppio di ragazzini che incappavano nella giustizia e genitori che chiedevano aiuto – racconta il sacerdote – Per questo ci siamo interrogati su quanto potevamo fare, ci siamo messi in gioco. Ho sempre pensato a una presenza di Chiesa in mezzo alla gente. Allora ero al centro giovanile di Bassano e con me, quando siamo partiti, c’erano un volontario e due obiettori di coscienza». Avviene così, dopo una serie di peripezie, che il gruppetto riesce ad acquistare un rudere a Calvene, un po’ fuori paese («in mezzo alla corte c’era un pesco fiorito e dietro la casa un campo di viole: capii che era il posto giusto») e don Beppe inizia a dedicarsi totalmente all’attività di accoglienza di minori in difficoltà. Adolescenti e pre-adolescenti dell’area della Pedemontana, da Schio a Bassano, vengono affidati alla comunità dal Tribunale dei minori, attraverso i servizi sociali, le Ulss e i Comuni. L’affido, ancora oggi, è di tipo consensuale quando i genitori stessi, per vari motivi, non riescono a prendersi cura dei figli, oppure è imposto. «In tanti anni abbiamo modificato il nostro modo di lavorare, adattandolo mano a mano che facevamo esperienza – spiega don Beppe, che è legato anche da una lunga amicizia con il card. Pietro Parolin, segretario di stato Vaticano, e con don Luigi Ciotti di Libera – Il progetto su un minore è sempre individuale e realizzato da una rete di accompagnamento. Sono tre le modalità di approccio: la proposta di vivere per un periodo in modo residenziale in comunità, oppure di frequentarla solo in modalità diurna o, infine, viene proposto un progetto educativo territoriale. È importante fare strada insieme, mettendo ognuno del proprio: educare spesso vuol dire anche educarsi; a volte capita che ti accorgi che i ragazzi hanno molte cose da insegnare, ti stimolano ad approfondire. Ogni anno seguiamo più di una trentina di ragazzi, maschi e femmine, italiani e stranieri».
«Uno dei problemi più seri dei ragazzi, oggi, è la solitudine – prosegue don Beppe – nessuno ha più il tempo di seguirli, e in tanti anni di contatto e lavoro con loro purtroppo riscontriamo che la qualità di vita degli adolescenti e le modalità educative sono peggiorate. La scuola, i genitori, la Chiesa stessa, fanno fatica, gli adulti non hanno strumenti per valorizzare i più giovani, così attorno a loro si crea un vuoto, tendono a isolarsi e a vedersela da sé. Sarebbe necessario lavorare maggiormente sulla prevenzione e il coinvolgimento, per esempio attraverso attività sportive, e fornire maggiori strumenti di educazione e formazione alle famiglie». In generale, l’accoglienza in comunità viene fatta gradualmente, i ragazzi inizialmente sono spaesati, si percepisce la solitudine che hanno dentro, si chiedono perché devono andare via da casa. Gli operatori cercano di smontare la preoccupazione, provando a ridare loro fiducia e serenità, spiegando che sono in affidamento solo temporaneo; capita che poi trovino qualche amicizia e allora le cose vanno meglio. Oltre alla cooperativa “madre”, oggi sono presenti altre sei cooperative autonome nate negli anni, presenti in territori diversi; si occupano di varie fragilità in base alle necessità di ogni singolo territorio. Ci lavorano operatori e volontari. La prima accoglienza a Calvene era partita nel 1983; poco dopo è nata la cooperativa Primavera Nuova (1984), nel 1993 la cooperativa La Zattera Blu e nel 2003 è iniziata l’attività di Radicà. Poi l’esperienza si è ampliata e sono fiorite le nuove cooperative: Samarcanda a Schio, Adelante a Bassano, Kirikù a Montabelluna.
Don Giancarlo Cantarello, parroco di Calvene, rivolge parole di stima nei confronti di don Giuseppe Gobbo. «Fin dal primo incontro è apparso una persona mite, umile, capace di ascolto e ricco di saggezza. Ha avuto con tutti i parroci buoni rapporti di cordialità e collaborazione. In questi anni ha costruito tante relazioni con le persone del paese, molte lo hanno aiutato nella sua attività sociale, altre hanno partecipato a camminate, pellegrinaggi a piedi e vissuto con lui diversi interessi. È sempre disponibile a sostituire il parroco quando serve nelle celebrazioni durante la settimana perché alla domenica fa servizio a Posina e dintorni. È una tradizione la messa vespertina il primo giorno dell’anno per celebrare la giornata della pace, le sue riflessioni sono sempre profonde. Guardando i registri parrocchiali, si può notare come don Giuseppe abbia celebrato diversi matrimoni e battesimi di ex allievi o giovani di Calvene con i quali ha stabilito un rapporto umano e spirituale; attraverso la sua umanità, molti hanno incontrato Dio nei sacramenti. Ringraziamo di cuore don Beppe per questa sua lunga e feconda presenza a Calvene e gli auguriamo tanta vita e salute per essere ancora “sale della terra e luce del mondo”». Dopo tanti anni di lavoro in comunità c’è da chiedersi se don Beppe sia contento di quanto realizzato. «Mi chiedo piuttosto quale senso abbiano avuto tutte le cose che ho fatto e che ho portato a termine inseguendo il mio sogno. La risposta la trovo nel tornare indietro con il calendario e nel fare l’elenco mentale di quanti ragazzi siano passati in tantissimi anni per questa nostra comunità. Ne ho perso il conto, ma credo di non sbagliarmi parlando di un bilancio di circa cinquecento ragazzi. Molti di loro sono tornati volentieri dopo anni a trovarci, per raccontare della loro vita ed esprimerci il più delle volte un grazie sincero per quel che abbiamo fatto per loro. Proprio per queste attestazioni non ho esitazioni nel dire che è bello e giusto darsi da fare per gli altri». (Radicà si trova a Calvene, Vicenza, in viale Divisione Julia, 42. Info disponibili su radicaonlus.it e alle pagine Facebook e Instagram).
Cooperative nate con il metodo del “campo di fragole”
«Un valore che ci siamo sempre preposti è quello di mantenere un legame forte con il territorio, rispondendo ai bisogni di ogni specifico ambito – precisa don Beppe Gobbo – Inoltre abbiamo voluto rimanere in numero esiguo, non troppo grandi, per questo, anche, sono nate nuove cooperative e i passaggi sono stati talvolta dolorosi. Abbiamo deciso che il metodo doveva essere quello del “campo delle fragole”: quando si pianta una piantina di fragole, dopo alcuni mesi questa cresce e crea uno stelone con un’altra piantina; se lo stelone viene tagliato, le singole piantine continuano a vivere ugualmente. Così deve essere per le nuove comunità, ognuna può proseguire la sua missione indipendentemente dalle altre». In alto: foto della copertina del libro pubblicato in occasione dei quarant’anni dalla realizzazione della prima comunità di accoglienza a Calvene, che solo dal 2003 si chiamerà Cooperativa Radicà.