Alluvioni. Le cause sono a monte

Stenta la memoria umana a ricordare eventi alluvionali come quelli registrati a metà maggio in tutta l’area vicentina, veronese e padovana. Da una parte un copione già visto. Dall’altra, criticità che potrebbero aprire a sviluppi futuri.

Alluvioni. Le cause sono a monte

Il “già visto” sono state le piene dei fiumi, mitigate dai bacini vecchi e nuovi che certamente hanno evitato situazioni che potevano essere ancora più gravi. Le precipitazioni abbondanti, improvvise e fulminee, sono invece la vera novità e criticità. Non si ricordano esondazioni nel “mese delle rose” con tanto di “bis” alluvionali. Situazioni estreme che possono clonarsi anche a pochi giorni di distanza e che rischiano di non far bastare gli stessi bacini di espansione appena inaugurati. E non si tratta di un “al lupo, al lupo”. Qui, qualcosa non funziona più, e se funziona non ha più la cura di un tempo. Non è solo la pulizia degli alvei – come si sente dire spesso, quasi a voler trovare un colpevole ad ogni costo. Il materiale da bonificare è la minor cosa, dinnanzi a quanto non viene manutentato a monte. Se le acque scendono a valle in maniera tanto copiosa e rapida, ma noi ci preoccupiamo del livello degli affluenti dei grandi fiumi rigonfi per le precipitazioni alpine e prealpine, significa che rivolgiamo la nostra attenzione ai danni e ignoriamo le cause. Fattore questo che si può estendere alla qualità di aria, acqua e suolo, che sommati creano e creeranno quella “tempesta perfetta” sempre più vicina. A parlare qui di «criticità montana», sono i vecchi manutentori della montagna. Coloro che la montagna l’hanno vissuta e “lavorata”, ben distanti dai gestori di oggi che dagli uffici veneziani si fregiano di essere “geni o magistrati alle acque”. La montagna è un ecosistema complesso e vivo, che si è deciso di abbandonare e proprio lo spopolamento potrebbe essere all’origine dei disastri di oggi. Se si parla con quei “vecchi della montagna”, si evince che è davvero cambiato il mondo: e non in meglio. Non c’entrano le grandi opere con cui i politici si riempiono la bocca, si tratta di piani di resilienza montana per mantenere l’ecosistema e l’economia delle terre alte, che poi si riflette anche in pianura: sfalci dei prati, briglie nei torrenti, bonifica dei corsi d’acqua, ecc. Tutto quello che avveniva fino a un decennio fa, oggi non avviene più per scarsa volontà, capacità e lungimiranza di chi decide sul paesaggio, finendo col parlare di danni e non di cause. Questo potrebbe giustificare quanto si è vissuto in pianura a metà maggio, con l’11 per cento di acqua trattenuta a monte, mentre il 90 per cento scendeva senza ostacoli a valle. Ecco perché il “mai visto”, diventa qui un fenomeno ripetibile in futuro. I celebrati bacini di laminazione, visti come una panacea, potrebbero essere presto solo un “tampone”. E men che meno una novità, visto che sono figli della lungimiranza di chi nel 1926 irreggimentò con un’arginatura le aree golenali lungo le sponde del Bacchiglione tra Padova e Vicenza, realizzando i primi modelli cui s’ispirano i bacini di oggi. Quindi nulla di “ingegneristicamente” nuovo sotto il sole! Le vere novità dovrebbero venire ancora da quella montagna troppo spesso dimenticata (se non per le Olimpiadi 2026), da dove l’acqua parte venendo “domata” grazie a interventi collaudati nei secoli, ben diverso da quanto si vede oggi con grandi opere a valle mentre ai monti non vengono rivolti, nemmeno più, sani pensieri e ragionamenti.

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