“Siamo qui da vent’anni”, a Venezia è il giorno del documentario sui braccianti del nord
Il vino Barolo prodotto grazie al lavoro di operatori macedoni, la produzione casearia fondata sulla presenza di lavoratori indiani, i castagneti abbandonati che trovano nuovi custodi provenienti dall’Africa. Il documentario di Sandro Bozzolo racconta i lavoratori di origine straniera del cuneese
Ci sono i macedoni impegnati nelle vigne, gli indiani sikh nell’allevamento, gli africani nei frutteti, i cinesi nella lavorazione della pietra, le donne dell’Est Europa nell’assistenza domiciliare. Sono le comunità di origine straniera che vivono nella provincia di Cuneo il cui lavoro, spesso sottovalutato, è invece cruciale nella produzione di alcune delle eccellenze italiane. Un ruolo chiave raccontato, per la prima volta, nel documentario “Siamo qui da vent’anni”. Diretto dal cuneese Sandro Bozzolo, il film è prodotto da Anolf – Associazione nazionale oltre le frontiere di Cuneo, realtà promossa dal sindacato Cisl, nell’ambito del progetto Frame, Voices, Report lanciato dal Consorzio delle ong piemontesi. “Il vino Barolo prodotto grazie al lavoro di operatori macedoni, la produzione casearia fondata sulla presenza di lavoratori indiani con il turbante, i castagneti in stato di abbandono che trovano nuovi custodi provenienti dall’Africa. Latte, vino, formaggio, castagne: la vocazione agricola della Provincia di Cuneo, metafora dell’intera Italia, si rinnova nel segno di una globalizzazione del mercato del lavoro che sopperisce alla mancanza di manodopera locale, ma che rimane sommersa nell’ombra”, riassume Roger Davico, sindacalista e presidente della sezione di Cuneo di Anolf. L’idea di realizzare questo documentario nasce da lui: “Conosco molto bene questo territorio, dove sono nato e cresciuto – racconta –. Con la nostra associazione supportiamo i lavoratori di origine straniera e, attraverso la mediazione culturale, promuoviamo l’integrazione. Purtroppo, però, ho sempre riscontrato molta fatica a dimostrare l’apporto di queste persone, che contribuiscono a far grande il nostro territorio. L’idea del film è nata così, con l’obiettivo di raccontare le comunità che lavorano in questa zona, che non necessariamente coincidono con quelle più numerose”.
La comunità macedone
“La paga è sempre uguale. Tutto è aumentato, tranne gli stipendi per la manodopera. Diciassette anni fa mi pagavano 6 euro l’ora. Oggi 7. Diciassette anni fa la benzina costava meno di un euro, adesso quasi due. Noi facciamo il vino, poi lo vendono loro. Vediamo le aziende allargarsi e crescere, vuol dire che, per loro, le cose vanno bene: una giornata in vigna, oggi, qui a Barolo, penso potrebbe valere anche un milione di euro. Ma per noi le cose non sono mai cambiate”. Uno dei protagonisti del documentario è Nikolcho Andonov, lavoratore agricolo. Mentre parla alla telecamera, taglia grossi grappoli d’uva nera tra le vigne rigogliose che affollano le colline. Nel 2019, nelle Langhe e nel Roero sono state prodotte circa 54 milioni di bottiglie di vino. La maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici impiegati nelle vigne è di origine macedone, come Nikolcho. “Ma per noi le cose non sono mai cambiate. Certo i primi anni era peggio: non sapevi parlare, non sapevi nemmeno di avere dei diritti. Oggi abbiamo chi ci aiuta, chi ci spiega come vanno le cose. Penso alla Cisl, per esempio”. Il cuore della comunità macedone è a Neive, nella parrocchia della Chiesa Autocefala Ortodossa Macedone: raccoglie circa 9 mila persone da tutto il sud del Piemonte, anche se i dati ufficiali stimano un totale inferiore. “È normale – spiega Davico –: molti nel frattempo hanno preso la cittadinanza italiana”.
La comunità indiana
E di cittadinanza, nel documentario, parla anche la giovanissima Kirandeep Kaur
“Ho fatto la terza media e sono uscita con 10 e lode – racconta –. Non è nulla di che, mi piace studiare e ho avuto ottimi insegnanti. Sono ancora cittadina indiana, e un po’ mi dispiace, perché per quello che vorrei diventare dovrei avere la cittadinanza italiana. Spero che, dopo i quasi 14 anni necessari, me la diano. A volte ti fa un po’ male, perché ti impegni per tutte queste cose e poi, per alcune possibilità politiche, non puoi andare avanti. Spesso chi ha la cittadinanza non ne conosce il valore”. Con una resa media di 660 tonnellate annuo per azienda, il settore lattiero caseario piemontese rappresenta un'eccellenza a livello italiano. La maggior parte dei lavoratori stranieri nelle stalle e nella filiera del latte è originaria del Punjap e di religione sikh, una comunità di circa 3 mila persone che si ritrova attorno al tempi sikh di Marene. Tra di loro Daljit Singh: “Il nostro lavoro comincia alle 5 di mattina e andiamo avanti fino alle 10. Ci riposiamo il pomeriggio, lavoriamo la mattina anche molto presto e la sera fino a tardi. Prendo un buon stipendio, ma per quello che faccio – mi occupo anche di fecondazione – credo dovrebbe essere più alto. Sono 20 anni che lavoro qua, ma se le cose dovessero cominciare ad andare male, non interesserebbe a nessuno”.La comunità africana
Poi ci sono, soprattutto nel saluzzese, i lavoratori della frutta: pesche, kiwi, mele, pere, albicocche, susine, mirtilli, lamponi. Le castagne nei castagneti abbandonati. Si tratta, per lo più, di uomini di origine sub-sahariana. Togo, Senegal, Burkina, Gambia. Come riportato dalle cronache, questa comunità, composta fino all’epoca pre-Covid da circa 3 mila persone (quest’anno sono meno), ha avuto spesso problemi di alloggio, ritrovandosi costretti a dormire in un grande assembramento fatiscente in un viale semicentrale della città. “Una situazione complessa – spiega nel documentario Mauro Calderoni, sindaco di Saluzzo –. Ma i saluzzesi ricordano di essere stati, in un passato nemmeno troppo lontano, migranti a loro volta. Sappiamo tutti che i lavoratori stagionali della frutta, nostri cittadini temporanei, sono fondamentali per l’economia e lo sviluppo della nostra comunità”. La conferma arriva da Piero Abello, frutticoltore di Falicetto di Verzuolo: “Io ho sempre preferito dare lavoro alla gente del posto. Concittadini che davano una mano, abitanti della montagna. Poi i leccesi, negli anni Settanta e Ottanta i giovani. È tutto cambiato: la montagna si è spopolata, i giovani non vengono più, così abbiamo bisogno di persone che vengono da altre parti del mondo. Per fortuna che ci sono loro, altrimenti dovremmo chiudere le nostre aziende”.
La comunità cinese
La frutta raccolta dagli africani viene confezionata dalle donne cinesi, mentre gli uomini cinesi tra Barge e Bagnolo fanno gli scalpellisti e lavorano la Pietra di Luserna (di cui è coperta, per esempio, la Mole Antonelliana). Per densità rispetto alla popolazione locale, è la prima comunità in Europa. Arrivano tutti dallo Zehjiang, zona rurale sulla costa orientale della Cina, a metà tra Taiwan e il Giappone, dove già facevano lo stesso mestiere.
La comunità dell’Est Europa
Poi ci sono le tantissime donne dei paesi dell’Est, assistenti domiciliari e oss nelle case e nelle strutture della zona. Vengono soprattutto da Ucraina e Moldavia. In Italia, il lavoro domestico regolare è al 75 per cento straniero, di cui il 60 per cento dell’Europa dell’Est. Più dell’80 per cento della forza lavoro impiegata nel settore è rappresentato da donne, che spesso hanno lasciato figli e nipoti piccoli in patria, con tutto quello che, a livello psicologico, una situazione del genere può comportare. “Dovevo rimanere un anno. Sono qui da 18. Gli anni migliori della mia vita li ho passati qui e, intanto, i miei nipoti sono diventati grandi. So che il mio lavoro è molto importante. Quando faccio due passi, spesso vado al cimitero a salutare uomini e donne che ho seguito, persone straordinarie, che con la loro saggezza mi hanno insegnato tanto”. Irina Petrunyak è un’assistente domiciliare di Viola. “Qui la sanità funziona benissimo, solo gli italiani non se ne rendono conto. Se si guardassero intorno, capirebbe che fortuna hanno”.
Un viaggio intorno al mondo alla scoperta di realtà colpite duramente dalla pandemia ma che, lentamente ma con fermezza, si stanno rialzando (le riprese sono state effettuate prima dell’emergenza sanitaria, ndr). “Naturalmente tutte le persone che appaiono nel video sono lavoratori in regola – spiega Davico –. Se la sanatoria ha cambiato le cose? Qualche risultato l’ha dato, soprattutto nel campo di colf e badanti, ma secondo noi c’è ancora molto sommerso. Forse la misura avrebbe potuto essere più coraggiosa, ed essere estesa anche a lavoratori del turismo e dell’edilizia. Insomma, possiamo dire che è stato un primo passo”.
“Abbiamo conosciuto comunità compatte e organizzate – spiega Sandro Bozzolo, il regista –. Siamo alle terze generazioni di realtà qui da 20 anni, come dice il titolo del film, che ancora faticano a essere raccontate. L’integrazione avrebbe potuto procedere a passo molto più spedito, invece sono spesso comunità chiuse in loro stesse. Perché? Temo per la sempre più diffusa scarsa educazione verso la cultura e l’intercultura di conseguenza. Mancano le occasioni di incontro”.
Il documentario – realizzato tutto da maestranze locali (dal regista ai montatori, dai musicisti al soundesigner) – dopo la presentazione a Cuneo e la settimana di proiezioni online sul sito Cineambiente.it, oggi sbarca al Festival del Cinema di Venezia, presentato nell’esordiente sezione tematica “Fondazione Fai - Persona, Lavoro, Ambiente”, premio collaterale voluto da Fai Cisl e della Fondazione Studi e Ricerche della Biennale. L’ideatore del premio è il sociologo Ludovico Ferro, docente di Processi Culturali e Comunicativi all’Università di Padova, studioso dei festival cinematografici come luoghi di sfera pubblica.
Ambra Notari