Vita da padri: il racconto corale di Vittorio, Claudio e Marco
Sono attivisti per i diritti delle persone disabili, impegnati nel mondo dello sport e della società civile. Ma sono anche uomini che ogni giorno si interrogano sul loro ruolo di genitori
Lavorare nel sociale per me significa innamorarsi ogni giorno delle persone. Amare le loro storie, sapersi appassionare ai loro successi e fallimenti, mantenere la professionalità senza perdere la tenerezza. È con questa disposizione di spirito che ho pensato di raccogliere i frammenti di tre avventure. Sono capitoli che esplodono di gioia nelle storie di uomini che hanno toccato il dolore e la paura. Sono i punti di vista quotidiani sulla paternità in un periodo per tutti complesso, partendo da quelli che, innegabilmente, il contesto sociale riconosce come limiti. Vittorio, Claudio, Marco. Come i fili di una treccia queste vite si incontrano più e più volte in un’amicizia che li lega da 20 anni. Tanti i punti in comune tra i tre: il contesto di vita, la Liguria, dove sono nati e hanno scelto di restare, un incidente importante prima dei 30 anni che li porta a rivedere, in toto, le scelte di vita, un amore viscerale per lo sport, con ripercussioni e successi a livello personale e collettivo e, infine, l’impegno quotidiano che il loro essere padri porta con sé.
Sarebbero davvero numerose le cose da raccontare su ciascuno di loro: Vittorio Podestà, i massimi successi possibili mantenuti per più di dieci anni a livello paralimpico e mondiale nel campo dell’handbike e la sua capacità di essere alfiere dell’autodeterminazione in ambito scolastico ed educativo; Claudio Puppo, attivista per i diritti delle persone con disabilità da oltre un quarto di secolo, in particolare in materia di accessibilità, adattamenti alla guida e sport, con una passione sfrenata per il basket in carrozzina; Marco Carbone e il tumulto continuo con il quale cerca di cambiare il Levante ligure, la terra che tanto ama, attuando una concreta inclusione delle differenze tramite l’accessibilità delle spiagge e l’amore per un mare da far vivere a tutte e a tutti.
Queste passioni e impegni costanti lasciano qui il campo al tema della paternità, trattato in modo tutt’altro che affettato: è il loro rapporto con Anita, Jacopo, Gabriel, Emanuele a fare da protagonista in queste pagine. Ho fruito del vantaggio della reciproca conoscenza per godere dei loro pensieri in modo informale e corale, in un’intervista dal sapore dolce e deciso. Vittorio è sposato con Barbara dal 2002, hanno una bambina, Anita, di tre anni e mezzo; Marco è sposato con Lucia dall’ottobre scorso dopo una relazione di oltre sei anni e hanno un bambino, Emanuele, di otto mesi; Claudio è stato sposato per 15 anni e, con la moglie, ha adottato Jacopo che oggi ha 21 anni. Dalla relazione con Ana, iniziata del 2015, invece, è nato Gabriel, che oggi ha due anni. Al momento dell’intervista due papà su tre stavano vivendo un isolamento volontario per covid, con tutte le difficoltà del caso.
Parliamo di educazione dei figli e delle figlie riferendoci anche a questo momento che la nostra società sta vivendo...
Claudio: Questo momento pone i genitori di fronte a delle sfide nuove e diverse da sperimentare quotidianamente. Se dovessi pensare a cosa differenzia principalmente un padre disabile da uno non disabile, direi che il non disabile ha spesso un lavoro fisso e che, quindi, non riesce a dare la stessa massima disponibilità di essere presente nella gestione dei figli, a prescindere dalla pandemia, ma questo si evidenzia maggiormente quando i bambini passano più tempo a casa. Se volessimo fare un discorso più ampio sulle persone con disabilità in questo preciso momento, direi che, secondo me, rispetto alla società in generale le differenze tra prima e dopo il covid per i disabili sono state minori, poiché le persone con disabilità già vivono quotidianamente, a cose “normali”, in trincea.
Vittorio: Abitualmente lavoro da casa, ma quando Anita è con me il tempo è rallentato. La nostra famiglia sta attraversando un momento di forte riorganizzazione del tempo e della gestione della quotidianità: con la conclusione della mia carriera sportiva è stato necessario strutturare nuovamente la vita e il centro è diventato nostra figlia. Abbiamo deciso di sospendere per un po’ la frequenza dell’asilo perché al momento sia io che Barbara stiamo lavorando meno e da casa, ma il fatto che da diversi anni siamo stati abituati ad auto-organizzarci la quotidianità ci ha favorito. A mia figlia piace tantissimo giocare con me e a me con lei, mi ci dedico molto.
Marco: Con Lucia parliamo molto dell’educazione che ci troveremo ad affrontare nel prossimo futuro. Le valutazioni e le teorie che condividiamo non sono sempre così facili da mettere in pratica, dall’uso del telefono alla gestione delle difficoltà che un bambino come Emanuele può avere. Insomma, ci rendiamo conto che spesso i nostri propositi educativi non siano sempre così facili da rispettare.
Il ruolo degli ausili nella condizione di papà
Claudio: Guardandoci con gli occhi dei bambini, possiamo dire che utilizziamo ausili rilevanti come la carrozzina e il Triride. Gabriel sta andando poco al nido per la situazione generale della pandemia e ha molta energia. Abbiamo più occasioni di stare insieme e con esse aumentano anche le possibilità di incidenti: ammetto di avere timore di potergli fare male, come è capitato una volta quando Jacopo era piccolo. Mi ricordo che alle elementari un bambino aveva detto a Jacopo. «Ma perché il tuo papà non cammina?». «Non cammina perché è in carrozzina, che domande!», aveva risposto Jacopo, come se per lui sarebbe stato strano che camminassi, visto che riuscivo a fare comunque tante cose. Jacopo ora ha 21 anni e per me essere stato genitore di un bambino piccolo nei primi anni Duemila ed esserlo oggi con Gabriel è completamente diverso. Oggi, anche grazie all’evoluzione della tecnologia, siamo genitori sempre più attivi e presenti per vivere tante esperienze diverse, come anche il piacere del mare.
Vittorio: Prima che Marco mi facesse scoprire l’esistenza del Triride e poi anche quella dell’handbike a pedalata assistita, uno dei pochi crucci che ho sempre avuto era quello di non poter portare il figlio o la figlia che tanto desideravo a godere della natura, camminando nei boschi o andando in bici sulle strade lontane dal traffico, che sono sempre state la mia passione, anche prima dell’incidente. Insomma, sentivo che sarei potuto diventare un genitore troppo carente in aspetti che reputo importanti. Ora, grazie agli ausili, questa visione è quasi totalmente scomparsa e provo grande soddisfazione a portare a passeggio autonomamente il nostro cane Pelù e Anita a fare la spesa a “piedi” con me. I miei ausili per lei sono un po’ come dei giocattoli “da grandi”: per esempio, quando usiamo il Triride lo sa quasi guidare da sola e devo stare attento quando accelera.
Claudio: Vittorio anche tu sei diventato un “papàsseggino”!
Marco: Noi che abbiamo avuto l’incontro con la disabilità tantissimi anni fa (Marco ha subito un incidente stradale nel 1997 ndr) abbiamo visto l’evoluzione degli ausili, che hanno dato un grosso contributo a vivere al meglio la vita e a permettere di svolgere numerose attività. Questo mostra ai nostri figli, ma anche a tutti i bambini con cui veniamo in contatto, che viviamo la nostra disabilità con molta normalità, aiutandoli a spostare il punto di vista. Emanuele vedrà un papà che scia, che va in barca, che va in bicicletta, che va a fare la spesa, che fa da mangiare, e spero tanto che possa imparare qualcosa da me. Io potrò dargli questo semplice esempio: anche in una situazione di difficoltà apparente sono tante le cose che si possono fare. Restando sul tema del mare, introdotto da Claudio, le spiagge libere, che come associazione NoiHandiamo abbiamo contribuito a rendere accessibili in sei tratti di costa, con un modello innovativo, sono frequentate da famiglie comuni, da mamme, da papà e da bambini piccoli: quando si crea un’accessibilità inclusiva e vera, i genitori possono sperimentarsi in completa autonomia anche in spiaggia, fare il bagno insieme, stare sul lettino, prendersi un gelato al bar, fare la doccia.
Un confronto tra l’educazione nella famiglia attuale e quella all’interno della famiglia di origine
Vittorio: Penso che sia importante ascoltare a tutte le età, anche a tre anni, e creare con i figli un rapporto basato sull’autorevolezza più che sull’autorità, come invece poteva avvenire nelle precedenti generazioni, compreso all’interno della mia famiglia. L’autorità si esercita, l’autorevolezza si conquista. È molto importante per me far sapere ai bambini e ai ragazzi che anche i genitori hanno dei dubbi e che i grandi possono fare degli errori quando prendono le decisioni: la chiave è farsi percepire come persone che ammettono di sbagliare, ma che se ne assumo le responsabilità.
Marco: È proprio quello che secondo me sta accadendo alle generazioni che oggi crescono dei figli: la difficoltà nel cercare di definirsi come nuovo riferimento adulto senza ricadere nello stesso tranello dell’autorità esercitata dalle generazioni precedenti. Essere autoritari è più semplice. Credo sia stato l’esempio concreto dei miei genitori a essermi stato d’insegnamento, più di tante parole, e spero di fare altrettanto con mio figlio. Penso che, nell’educazione, la pratica quotidiana conti davvero e che sia importante la qualità del tempo che si può dedicare alle persone, in modo particolare ai bambini, ai nostri bambini. È un pensiero che non mi ero mai posto prima della paternità, una scelta che io e Lucia abbiamo fatto con consapevolezza, desiderio e maturità. Oggi il ruolo dei miei genitori è molto importante nella mia vita familiare: sia mia madre che mia suocera ci aiutano nella cura di Emanuele e il contributo di mio padre nella realizzazione de LaMaxGua, la barca ad alta accessibilità che abbiamo realizzato con l’associazione NoiHandiamo, è stato indispensabile.
Claudio: Il rapporto che ho con la mia compagna Ana è diverso da quello che ricordo ci fosse tra i miei genitori: siamo coesi, anche quando siamo in disaccordo troviamo il modo di affrontare le situazioni in modo costruttivo. Come papà penso che noi tre agli occhi dei nostri figli facciamo tante cose, anche per gli altri. Questo potrebbe generare in loro, oltre all’idea di avere un “super papà”, un’aspettativa troppo alta rispetto alla generosità, alla disponibilità e all’altruismo: tre caratteristiche che non mi sembra sempre di riscontrare né nella nostra società né, purtroppo, nella maggior parte delle persone con disabilità.
La ripartizione dei carichi familiari
Vittorio: Io mi occupo della gestione economica familiare, di ciò che si può fare o risolvere con un pc o con un cellulare nella vita quotidiana. La maggior parte dei lavori casalinghi pesanti li svolge mia moglie Barbara, alla quale riconosco grandi capacità, e che, tra l’altro, non riceve nessun aiuto dai nostri genitori. Spesso provo a fare qualche lavoro casalingo ma Barbara mi dice di lasciar perdere, perché non è soddisfatta di come lo faccio e sono sicuro che me lo direbbe anche se non vivessi su una carrozzina. Penso che sia tipico di tanti rapporti marito-moglie, anche quando i primi non hanno un alibi forte come il mio. Per contro, però, mi dedico molto alla cura di Anita: vestirla, lavarle i denti e le mani, fare l’aerosol, giocare e vedere i cartoni animati con lei, rispondendo alle sue innumerevoli domande. Sono cose che facciamo volentieri insieme e spesso preferisce me alla mamma. Barbara e io ci rendiamo conto di quanto sia sbagliato applicare etichette, ruoli e compiti ai genitori solo per consuetudine e vogliamo fare in modo che anche Anita cresca senza questi preconcetti ormai superati.
Marco: La mia è una cucina normale nella quale riesco a fare da mangiare, a lavare i piatti, a preparare le pappe per Emanuele. La mia quotidianità di papà è fatta di primi giochi e di cure primarie per le quali non ho incontrato grosse problematiche: dal primo giorno in cui Emanuele è arrivato a casa mi sono ritrovato abbastanza velocemente a cambiare pannolini, a vestirlo, a fare i lavaggi del naso e le medicazioni dell’ombelico. Mi sono consapevolmente adattato a queste routine, che ho desiderato e alle quali ho scelto di dedicare una parte molto importante del mio tempo. Lucia è già parzialmente rientrata al lavoro (ha un impegno politico nel Levante ligure) e quindi il mio ruolo è attivo e necessario.
Claudio: Come genitore disabile penso di essere molto più presente di altri papà. Lo sono stato con Jacopo e lo sono ora con Gabriel: per esempio mi sono sempre occupato della preparazione e dell’accompagnamento a scuola. Inoltre, visto che sono in carrozzina, faccio tutti i lavori di casa da 1 metro e 50 in giù. Con Ana, la mia compagna, abbiamo un accordo: lei fa da mangiare e io lavo i piatti, mal che vada almeno la pancia è piena.
Le debolezze nell’essere papà
Claudio: La mia debolezza è la differenza di età: ho 58 anni, pensavo che avrei fatto il nonno dei figli di Jacopo, invece è arrivato Gabriel e, quando penso al futuro, un po’ mi spavento. Rispetto ad altri genitori abbiamo la fortuna di non poter dire «chissà se capiterà proprio a me». Non possiamo dirlo, perché ci è già capitato, e proprio questa responsabilità pone una serie di punti interrogativi sul futuro.
Vittorio: Dopo quello che mi è successo, una delle mie più grandi debolezze, condivisa dalla stessa Barbara, è che possa succedere qualcosa di grave. L’essere diventati genitori a volte ci sembra un sogno, la vita che abbiamo costruito ci sembra bellissima, ma anche molto fragile. Ci chiediamo se quello che ci sta accadendo sia vero, guardiamo nostra figlia come se fosse una favola e abbiamo paura che si spezzi l’incantesimo. Questo è il nostro reale limite: la mancanza di spensieratezza.
Il sistema sociale rispetto alla posizione genitoriale
Vittorio: La società è ancora inerte sul piano della parificazione delle famiglie rispetto alla diversità. Purtroppo ci si affida molto alla discrezionalità e alla sensibilità delle persone che si incontrano. Le persone con un impedimento fisico sono ancora viste come parte passiva e poco determinante e attiva nella gestione dei ruoli, a maggior ragione in quello di genitori. Un cambiamento in questo senso è stato fatto grazie ad alcune leggi, ma non è ancora entrato nella mentalità degli stessi legislatori e dei cittadini che non vivono certi problemi. Paradossalmente dovrebbero essere proprio le minoranze a fare le leggi, perché sono portatrici di problemi che la maggioranza delle persone non coglie.
Marco: Per la gestione di Emanuele dobbiamo affidarci alla rete familiare che ci supporta. Il sistema di inserimento al nido, per esempio, non valorizza le necessità di quelle famiglie che possono essere composte da uno o più genitori disabili. Alcune amministrazioni lo fanno, ma la situazione è lasciata alla libera iniziativa e il fenomeno è disomogeneo. La tendenza della società è quella di dare risposte dedicate a una sola “categoria”, dai servizi all’accessibilità degli spazi, senza pensare in modo più globale e più ampio ai bisogni di una comunità sociale.
Claudio: La società vede la persona con disabilità come un soggetto che ha meramente un bisogno economico, non come qualcuno che può avere, oltre a bisogni diversificati, delle capacità, anche significative, che possono contribuire al benessere della collettività. Noi siamo tre persone attive, non i famosi “handicappati”, quell’idea di handicap andrebbe superata collettivamente, non rispetto ai soli singoli casi.
Claudio e Vittorio: Questa mentalità arretrata si evidenzia ancora di più quando si parla di adozione: la disabilità è considerata una malattia e ci sono un sacco di pregiudizi e un sacco di discriminazioni. A volte sono emersi pregiudizi verso la madre, poiché il padre è considerato marginale nella cura dei figli e nell’educazione, quindi una madre disabile è mal vista. In altri casi i pregiudizi erano rivolti verso il padre, poiché la sua disabilità non gli permetterebbe di sostentare la famiglia. Siamo al paradosso, quando poi anche spazi pubblici come i Tribunali per i minorenni che abbiamo frequentato non sono accessibili.
La disabilità spiegata a un figlio o a una figlia
Vittorio: Spero che Anita non si vergogni mai del suo papà come succedeva in passato nelle famiglie in cui era presente una persona invalida. Adesso vede come un privilegio avere un papà diverso dagli altri e con i suoi ausili “divertenti”, mentre le domande sul perché non cammino sono frutto di semplice curiosità infantile. Penso che, se un bambino viene educato in un contesto in cui si prova vergogna, sia più facile che la interiorizzi. Avere un genitore disabile fa in modo, a mio parere, che il bambino non veda, crescendo, solo il punto di vista di chi sta in piedi, ma che si metta nei panni del genitore disabile e di tutte le persone con difficoltà in senso lato. Per spiegarle la disabilità proviamo a farle capire che è uno dei tanti aspetti della persona, come lo possono essere normali caratteri somatici, colore dei capelli, degli occhi, della pelle: nel senso che, pur non essendo una cosa troppo frequente, quando capita si può provare a gestirla.
Dobbiamo cercare di trasmettere ai nostri figli tutta l’empatia possibile. Loro vedono in noi qualcosa che gli altri papà non hanno: non considerano un problema avere un papà che non cammina, perché insieme facciamo un sacco di cose divertenti. So che nel corso della crescita anche la loro percezione del non camminare assumerà un carattere più negativo, ma nel frattempo cercheremo di far loro capire perché è avvenuto, che è una cosa che può succedere e che si può gestire la vita anche a fronte di questo tipo di problemi. Anche durante le conferenze che tengo nelle scuole mi concentro sui valori della diversità, provo a fornire gli spunti per capire come reagire ai cambiamenti inaspettati della vita come quelli da noi vissuti dopo un grave incidente o una malattia, a dare loro gli strumenti per rialzarsi dopo i colpi e le sconfitte più o meno grandi della vita, ed è quello che spero di riuscire a fare con Anita.
Marco: Io credo e mi auguro che i nostri figli, crescendo con noi, possano un domani vedere superati questi problemi e percepire i disagi quotidiani che incontrano le persone disabili non come un malessere personale ma come una carenza della società. Penso, inoltre, che le persone abbiano sempre bisogno di una scusa quando non riescono in qualcosa. Ecco... noi una buona scusa l’avremmo pure, perché la disabilità è un alibi che tanti utilizzano, ma che noi cerchiamo accuratamente di non accampare. Questo voglio che mio figlio possa imparare da me.
Pensieri per un altro genitore
Claudio: Direi di insegnare il rispetto e l’andare oltre l’apparenza di considerare le persone semplicemente un cartellino, un’etichetta. Un rispetto concreto nelle azioni e nelle parole, lontano dall’uso di alcuni termini come insulto, siano essi nano, bastardo, mongoloide, handicappato. Noi abbiamo avuto la possibilità, che poi è diventata una scelta, di passare del tempo con i nostri figli, ma penso sia importante che anche quei genitori che hanno meno tempo pongano l’intenzionalità alla loro azione educativa e alla qualità del tempo che passano a essere papà.
(L’inchiesta è tratta dal numero di marzo di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)