Un ritorno all’essenza della vita. I motivi della vittoria a Venezia di Nomadland vengono da molto, molto lontano
Il nomadismo e il distacco dalle cose terrene ha affascinato da sempre i grandi scrittori. E i santi.
La vittoria di “Nomadland” a Venezia ha causato qualche maldipancia tra gli esperti di cinema, ma ci dice assai di più di quello che si possa credere. I periodici boom economici creano aspettative basate anche e soprattutto sule possesso delle cose, su una sedentarietà mascherata da viaggi esotici. Quando arrivano le altrettanto periodiche crisi, assistiamo a processi di avvicinamento o di inabissamento nella povertà: talvolta non si hanno neanche più i soldi per l’affitto. Negli Usa la mobilità e anche il nomadismo fanno parte di un sistema economico non protetto, che rivela quanto l’uomo sia dipendente dalle cose, ma anche quanto molti si stiano volontariamente allontanando dalla immobilità della casa, degli elettrodomestici, dello schermo televisivo e di quello del computer o dello smartphone per tornare a quelle che in realtà sono le nostre radici, che a quanto pare esercitano ancora un fascino profondo. Non si capirebbe infatti come mai grandi scrittori, per esempio i Ginsberg, i Corso, i Kerouac (che ha scritto un mitico racconto di vagabondaggio, “On the road”) della cosiddetta beat generation abbiano scelto il nomadismo, la provvisorietà al posto della sedentarietà “borghese”.
Anche il loro indiretto maestro, Thoreau, scelse di andarsene a vivere in un bosco presso il lago Walden in una capanna di legno costruita da lui stesso, per non parlare dell’altro grande scrittore del cosiddetto rinascimento americano, Whitman, che scelse di andarsene in giro per gli Usa alla ricerca dell’identità perduta. Ma il nomadismo ha affascinato anche altrove: si pensi al giovanissimo Rimbaud che decise di lasciare l’occidente in cerca di nuove radici in Asia e in Africa, e al mito del viaggio che lo stesso Baudelaire covava in sé senza mai portarlo a definitiva scelta di vita, se non quella del nomadismo nei vicoli di Parigi. Ma si può andare oltre, ad esempio al quindicesimo secolo di un vagabondo, ribelle, recluso, ma grande poeta come Francois Villon, cantore della necessità di vivere la vita non abbracciati alle cose, ma a contatto con la natura e la provvisorietà. Due secoli prima un rampollo di buona famiglia decise di rinunciare a tutti gli agi, e anche al potere sociale e psicologico che ne derivava nei rapporti umani e amorosi, per farsi povero e vagabondo, tra lo scandalo dei benpensanti e la rabbia del padre che vedeva così traditi gli “ideali” della sua concezione delle cose. Pochissimi hanno fatto caso al fatto che settecento anni dopo, un laicissimo scrittore come Pirandello abbia concluso il suo ultimo romanzo, “Uno nessuno e centomila”, con la spoliazione del ricco “Gengè”, avvenuta con la mediazione della Chiesa e con la donazione ai poveri, e guarda caso, la scelta di vivere libero e povero a contatto con la natura. La tentazione di vedere un legame tra i due episodi, anche se “scandalosa”, è legittima.
Anche l’Ottocento è ricco di episodi in cui gente ricca rifiuta il proprio benessere per gettarsi tra le braccia di sorella povertà, avrebbe detto il Poverello: Lev Tolstoj, ad esempio, che non solo in alcuni suoi scritti accusò la nobiltà russa di fare una vita senza senso tra agi e ozi inutili (investendo in questa accusa anche l’arte) ma decise di abbandonare tutto, fuggendo dal suo benessere e dalla famiglia, per andare a morire, nel novembre del 1910, in una sperduta stazione ferroviaria. Come un qualsiasi vagabondo, appunto. Il cammino alla ricerca di nuovi sentieri di senso ha affascinato, come abbiamo visto, anche il Novecento: si pensi a Marilynne Robinson che nella trilogia di Gilead e nel suo primo, perturbante romanzo, “Le cure domestiche”, ha espresso, da credente, il desiderio nascosto in molti di noi di rimettersi in cammino per ritrovare nella semplicità il vero senso della vita. E anche a un grande che in Italia dovremmo riscoprire, Velimir Chlebnikov, il poeta nomade e povero per eccellenza, fino alla fine, autore di versi che sono la quintessenza di un nuovo francescanesimo nella Russia della guerra civile: “Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / un ditale di latte, / e questo cielo / e queste nuvole”. Senza dimenticare Pierre Reverdy, uno dei grandi dell’avanguardia parigina, anticipatore del surrealismo, che andò a vivere con la moglie vicino all’abbazia di Solesme, in povertà e in quella contemplazione che lui riteneva la sola via “per raggiungere la realtà suprema”.
Ci sarebbero molti altri nomi, e rilevanti, a testimoniare che le cose non danno la sperata felicità, anzi, e che solo un ritorno alla semplicità e al viaggio verso gli altri (e verso se stessi) ci possono restituire il vero senso del nostro passaggio.