Stringendo la zampa di Dumbo. L'elefantino di peluche che tiene compagnia al giovane down malato di Covid
Nella foto di “Wellenbrecher” è riassunto il nostro stato d’animo. Ci siamo scoperti terribilmente fragili.
Al secondo piano della nuova ala dell’ospedale di Bolzano le luci sono sempre accese, giorno e notte. Ed è proprio quando tramonta il sole che tutti possono vedere, attraverso le grandi vetrate che si affacciano su via Böhler, la lotta per la vita che lì si combatte ininterrottamente da oltre otto mesi. La battaglia aveva offerto una breve tregua durante l’estate, ma da fine luglio le luci si sono riaccese e si è ricominciato a combattere.
La sera, quando passi davanti a quelle finestre, dietro alle quali sono ben visibili le testiere dei letti della “terapia intensiva Covid-2”, speri che venga presto il giorno in cui le troverai spente, a significare che la battaglia è definitivamente vinta. Ma per ora sono lì, accese e pulsanti, come i macchinari che tengono monitorata la situazione clinica dei pazienti e danno loro l’ossigeno e i medicinali necessari per vincere la loro personale battaglia contro il virus. Dalla strada non senti il bip-bip delle macchine, ma è come se il silenzio della notte lo amplificasse anche oltre quei vetri, mentre nei loro letti, circondati da un’armatura di tubi e tubicini, uomini e donne di ogni età duellano con l’infido nemico per conquistare un respiro dopo l’altro.
Lunedì scorso (15 febbraio), il fotografo e video maker Andrea Pizzini ha pubblicato sulla sua pagina Fb Wellenbrecher (che prende il nome dall’omonimo progetto – letteralmente “frangiflutti” – nato per documentare la vita nei reparti Covid dell’Alto Adige) un’immagine che ribalta la prospettiva.
È stata scattata da dentro il reparto. Da lì la strada, che si trova a qualche decina di metri, non si vede. Non si vedono passare le auto e non si sente il rumore del traffico. Sulle grandi vetrate è riflessa solamente la luce dei macchinari che tengono in vita i pazienti, impegnati a combattere il loro agone.
La foto postata da Pizzini – che è subito diventata virale, raccogliendo nel giro di poche ore decine di migliaia di like e di condivisioni – ritrae un nuovo paziente del reparto. È un giovane affetto dalla sindrome di down. Quella era la sua prima notte passata in terapia intensiva.
Non è intubato. Sul volto ha una maschera che gli fornisce l’ossigeno necessario per respirare.
“Per tutta la notte il suo Dumbo gli ha fatto compagnia – scrive Pizzini nel post -. Dato che le spondine del letto sono un po’ basse il Dumbo gigante ogni tanto cadeva fuori dal letto. Ma ogni volta un infermiere o un dottore sopraggiungeva quasi di scatto per rimetterglielo a letto. Ha passato così una notte tranquillo e di giorno ci ha salutato tutti con baci lanciati con la mano”.
È trascorso un anno dalla notte tra il 20 e il 21 febbraio 2020, quando nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Codogno, la dottoressa Annalisa Malara, di fronte a quel suo nuovo paziente che presentava chiari sintomi di una polmonite virale che peggiorava in modo “repentino e anomalo”, decide di forzare il protocollo e di sottoporlo a tampone. Positivo. Mattia Maestri diventa così il “paziente 1”. Nel piccolo ospedale della Bassa Lodigiana scatta l’allarme. Isolamento e dispositivi di protezione individuale per medici e infermieri. Ben presto, purtroppo, al “paziente 1” sono seguiti i “pazienti 2 e 3”. E il virus si è diffuso rapidamente in tutto il Paese. Ad un anno di distanza in Italia 2.780.882 persone hanno contratto il Covid-19 e 95.235 sono quelli che il virus è riuscito a sopraffare.
Nella foto di “Wellenbrecher” è riassunto il nostro stato d’animo. Ci siamo scoperti terribilmente fragili. Ci siamo fatti forza cantando a squarciagola dai balconi delle nostre case, ripetendo come un mantra “andrà tutto bene”. Durante le lunghe settimane di lockdown abbiamo allentato la tensione dandoci – non senza successo – alla panificazione. Speravamo che finisse prima, molto prima. In estate ci è sembrato di respirare, ma abbiamo abbassato troppo presto la guardia e lui, il virus, è tornato ad alzare la cresta. Abbiamo imputato l’arrivo dell’infido nemico all’anno bisestile, e con tutte le forze la notte del 31 dicembre abbiamo sperato che il nuovo anno si sarebbe portato via tutto questo male, tutta questa sofferenza, tutte le nostre paure. Ma poi il 1. gennaio ci siamo risvegliati ancora chiusi in casa, fragili e impauriti. Le mascherine sono diventate parte integrante del nostro outfit: siamo passati da quelle di stoffa cucite in casa, a quelle chirurgiche, per arrivare ora alle FFP2, introvabili un anno fa e che oggi possiamo avere in vari colori, così da poterle abbinare a giacche e maglioni.
Stupiti nel vedere un peluche in terapia intensiva, veniamo subito presi da un’infinita tenerezza nel vedere quel grande Dumbo, con i suoi occhi azzurri e il suo cappello giallo, tendere la zampa a quel giovane. La sua proboscide, che tanto richiama uno dei tubi “salva-vita” che circondano il suo amico, è rivolta verso l’alto, quasi a indicare la direzione da prendere per spiccare il volo e liberarsi dai lacci del virus.
Concludendo il post (pubblicato con il consenso dei genitori del ragazzo), Andrea Pizzini riporta quanto ha scritto Sophie, un’infermiera del reparto: “Prendersi cura di qualcuno. A volte, quando non si può essere fisicamente presenti, può essere d’aiuto un segno… un elefante con una grande missione”.
Nel remake di “Dumbo”, firmato nel 2019 da Tim Burton, si ricorda che “Non conta chi o cosa siete, potrete sempre spiccare il volo”.
“Quando tutto sembra perduto trova il coraggio che è in te” è la frase che fa capire a Dumbo come trasformare la sua fragilità nel suo punto di forza, unico e irripetibile.
“Quando tutto sembra perduto trova il coraggio che è in te”, sembra ripetere ora Dumbo al suo giovane amico. E a tutti quanti noi. Perché non conta chi o cosa siamo. Possiamo sempre spiccare il volo. Trasformando la nostra fragilità in un punto di forza.