Stazione Termini, esterno notte

DONNE SENZA DIMORA Sono oltre 20mila le persone senza dimora prese in carico ogni anno dai servizi sociali nella Capitale. Di queste 1 su 4 è donna e, tra le donne, più di 1 su 3 è italiana. Secondo gli operatori di Binario 95, nell’area Termini-Esquilino stanziano quotidianamente circa 80 persone senza dimora, tra cui 10-15 donne

Stazione Termini, esterno notte

Il cielo sopra la stazione Termini è limpido. Si vede un falcetto di luna. È ancora inverno, ma sembra primavera. Sono circa le otto della sera di una giornata feriale. C’è vai e vieni, come ogni giorno. Da una parte i residenti che percorrono i corridoi verso la metropolitana, dall’altra i viaggiatori muniti di trolley che indugiano dinanzi ai cartelloni delle partenze. Tutti sono di passaggio, in stazione trascorreranno solo il tempo necessario prima di salire su un treno, di discendere nei sotterranei della metro, di prendere uno dei numerosi autobus, che fanno capolinea a Piazza dei Cinquecento, dinanzi al grande atrio vetrato di Termini. Stabili, per l’intero corso del giorno, ci sono i lavoratori delle ferrovie, della sicurezza, dei tanti esercizi commerciali. E poi, in giro, a piccoli gruppi o da soli, dentro i locali della stazione o fuori, lungo Via Marsala e Via Giolitti, ci sono decine di uomini senza dimora, che attendono di stendere il proprio sacco a pelo sui marciapiedi perimetrali, di trovare riparo nello storico ostello della Caritas, fondato 36 anni fa dall’allora direttore don Luigi Di Liegro, o nel tendone della Croce Rossa adibito lo scorso anno a Centro vaccinale e ora riconvertito a Centro per l’emergenza gelo. Infine, immobili come statue, ci sono le donne. Anche loro trascorreranno la notte in zona stazione, per ragioni del tutto incomprensibili a noi che attraversiamo di fretta questi luoghi hanno scelto la strada piuttosto che l’ospitalità offerta dai Centri di accoglienza notturna.

L’uomo tende più facilmente a galleggiare in una situazione di bassa dignità. Ma la donna no, non si rassegna a una vita fatta di mense, centri di accoglienza, strada. O reagisce o impazzisce. Combatte fino all’ultimo, ma se perde, crolla. Non pareggia mai.

Sono oltre 20mila le persone senza dimora prese in carico ogni anno dai servizi convenzionati con il Dipartimento Politiche Sociali e Salute della Capitale, secondo i dati pubblicati dall’amministrazione comunale sul portale osservatorio.roma.it. Di queste 1 su 4 è donna con numeri che sono cresciuti nel tempo e, tra le donne, quasi 1 su 3 è italiana. Secondo gli operatori di Binario 95, nell’area di Termini e nel quartiere adiacente dell’Esquilino stanziano quotidianamente circa 80 persone senza dimora, tra cui 10-15 donne. Nato nel 2002 per iniziativa della cooperativa sociale Europe Consulting Onlus come primo sportello della rete dell’Osservatorio Nazionale della Solidarietà nelle Stazioni Italiane, Binario 95 offre supporto e accoglienza alle persone senza dimora che gravitano in zona stazione attraverso un Help Center, un Centro di accoglienza diurno, un Centro di accoglienza notturno e un magazzino situati in locali concessi in comodato d’uso gratuito da Ferrovie dello Stato Italiane, alla fine di Via Marsala. Siamo nell’epicentro della Roma della solidarietà. A pochi metri da qui, si trovano l’ostello, la mensa e il poliambulatorio della Caritas, punti cardinali per chi ha bisogno di un letto, di un pasto caldo o di una visita medica. “Le donne sono di solito più resilienti e finiscono in strada più difficilmente degli uomini: quando ciò accade è perché la loro condizione psichica è estremamente deteriorata – dice Fabrizio Schedid, vicepresidente della cooperativa e responsabile di Binario 95 –. L’uomo tende più facilmente a galleggiare in una situazione di bassa dignità. Ma la donna no, non si rassegna a una vita fatta di mense, centri di accoglienza, strada. O reagisce o impazzisce. Combatte fino all’ultimo, ma se perde, crolla. Non pareggia mai”.

Fabrizio Schedid conosce la zona di Termini-Esquilino metro a metro. Conosce molte delle persone che gravitano in quest’area per nome e cognome. Sa chi vive sotto un determinato porticato, lungo un certo marciapiede, in un’area più appartata e perché. È in grado di ricostruire le abitudini e i percorsi di vita di ciascuno, ne comprende i movimenti interiori e le intenzioni. Per ovvie ragioni di privacy qui useremo esclusivamente nomi di fantasia. Non tutti sono disponibili al dialogo, alcuni rifiutano anche un contatto fugace: non hanno bisogno di nulla, soprattutto non vogliono essere disturbati dagli operatori dell’Unità mobile di Binario 95 che ogni giorno percorre queste strade non per offrire tè e panini, ma per cercare di comprendere di cosa quella persona possa avere bisogno e quale possa essere il mezzo migliore per poter rispondere a quella necessità. Fabrizio e gli altri sanno che per il lavoro in strada occorre pazienza e un mix di caratteristiche che si apprendono solo con l’esperienza: assenza di giudizio, tenacia, fermezza e flessibilità. Sanno bene che il no di oggi potrebbe trasformarsi nel sì di domani, che nessuno si può sostituire a nessun altro, che i tempi e le scelte delle persone senza dimora vanno rispettati.

Maria Grazia è seduta a terra, le gambe distese avvolte in una coperta, le spalle contro la vetrata dello store della Nike. È tranquilla fino a che non si avvicina l’Unità mobile. Si tratta di due giovani operatori, non ci sono divise, hanno modi gentili. Maria Grazia non ci sta, si arrabbia lo stesso. Vive la loro offerta di aiuto come un’invasione di campo, comincia a gridare. Che volete da me, lasciatemi in pace è il senso di quella invettiva, che prosegue anche quando i due ragazzi sono già andati via. Fino a qualche mese fa Maria Grazia abitava nella periferia Est della Capitale con la figlia. Erano state segnalate ai servizi sociali come un caso di barbonismo domestico, la casa si trovava in uno stato di incuria totale. Un giorno l’appartamento va a fuoco per via di un fornello lasciato acceso. Le due donne vengono prese in carico dal Municipio di appartenenza. La figlia accetta di andare in un centro di accoglienza, Maria Grazia no: non le piace l’idea di essere confinata in una stanza chiusa, vuole tornare a casa sua, in quell’appartamento che crede esserle stato indebitamente sottratto. È arrabbiata, è suscettibile e scontrosa. Ha chiaramente una patologia psichiatrica, pensano gli operatori, ma non c’è né una diagnosi né, soprattutto, una cura. All’età di 69 anni Maria Grazia vive in zona Termini, il giorno in stazione, la notte chissà dove col suo sacco a pelo.

Sullo spartitraffico di Piazza dei Cinquecento, lato via Giolitti, non lontano dalla statua di Papa Giovanni Paolo II, incastonata tra le sue masserizie staziona Sharmin. Un tempo su quello stesso marciapiede vivevano due sorelle siciliane. Giunte a Roma da Messina alla fine degli anni Ottanta, le conoscevano tutti. I media avevano denunciato la loro situazione più volte, i servizi sociali e le organizzazioni non profit avevano tentato a più riprese di prenderle in carico. Rifiutavano ogni forma di aiuto. Hanno vissuto a cielo aperto per decenni, fino a quando dopo 30 anni di vita in strada grazie a una complessa sinergia tra amministrazione, Help Center di Roma Termini ed Help Center di Messina, non sono tornate nella loro isola, dove hanno ricominciato una nuova vita. Ora il testimone è passato a Sharmin, che si è costruita un rifugio incastrando le proprie cose all’interno di un parallelepipedo fatto di teli lunghi circa 2 metri per 1. “I posti non rimangono mai vuoti a lungo – commenta Schedid –. Se si libera uno spazio, presto ci sarà qualcuno che andrà a occuparlo”. Non sempre Sharmin ha vissuto in strada. Giunta in Italia all’inizio degli anni Duemila, ha cominciato a lavorare come badante. Qualche anno dopo si trova a mal partito, parla poco e male l’italiano, svolge solo lavori saltuari, non riesce a rinnovare il permesso di soggiorno, viene intercettata dalla Sala Operativa Sociale, il servizio di Roma Capitale aperto 24 ore su 24 per attuare un’opera di pronto intervento sulle situazioni di estremo disagio. Negli anni successivi trascorre del tempo dalle suore, si tenta la via del rimpatrio assistito, di lei si occupa anche il Dipartimento di salute mentale. Non riesce però a stabilire una convivenza serena con le altre ospiti, si rifiuta di assumere i farmaci, diserta gli appuntamenti con gli psichiatri. Nel 2018 è a Termini, dove comincia a costruire la propria casa. Nessuno riesce a convincerla a lasciare l’area, neppure la polizia, si limita sempre a spostare di pochi metri le proprie cose, fino a quando dalle pensiline della stazione guadagna Piazza dei Cinquecento. E là resta. Notte e giorno. Spesso sono gli stessi passanti a portarle del cibo, che lei accetta senza troppe smancerie. Come molte delle donne che vivono in strada anche Sharmin per difendersi dagli sguardi della gente, per proteggersi dalle minacce dei malintenzionati, fa di tutto per rendersi invisibile. Mimetizzata nel cumulo ordinato dei suoi beni è diventata parte di un paesaggio urbano, che ha integrato anche il disagio più grave, rendendolo parte indivisibile di sé.

Camminando sul marciapiede di Via Giolitti, verso le Ferrovie Laziali, c’è lei. È africana, ha una corporatura imponente, è seduta su due grossi fagotti. Lo sguardo fisso nel vuoto, ti attraversa con gli occhi senza vederti. Non guarda e non vede nessuno. Lei non c’è. È una statua di sale, una matrioska dalla pelle bruna che dentro di sé nasconde chissà quale trauma indicibile. Anche Schedid è colpito, non l’ha mai vista prima. Non ne conosce né il nome né la storia. Non ancora almeno. Qualche centinaio di metri più in là, all’altezza di Piazza Fanti, sede dell’Acquario Romano, Irma sistema le proprie coperte con gesti energici. Accanto a lei il cane Charlie, compagno di vita, condivide la sua solitudine. E più giù lungo Viale Manzoni, l’arteria che da Piazza Vittorio conduce a San Giovanni, Naira dorme apparentemente beata su una branda disposta nell’androne d’ingresso della concessionaria Fiat. Giunta molto tempo addietro dall’India, ha vissuto per una ventina d’anni a Milano. Un tempo Naira aveva un marito, che però non le concedeva di uscire. Dopo il divorzio ha tagliato i ponti con la famiglia ed è approdata a Roma. Per un po’ ha dormito nei centri di accoglienza, ma poi ha scelto la strada. Perché, come continua a ripetere, vorrebbe una casa e non un dormitorio. Oggi si vergogna della sua condizione ed è forse proprio questo imbarazzo a impedirle di parlare con gli operatori. Con le valigie ordinatamente disposte sui lati del letto, non sembra risentire delle luci al neon che si accendono ogni volta che qualcuno passa di là. “Per lei è un posto sicuro – commenta il responsabile di Binario 95 –. Paradossalmente sono proprio quelle luci, che interrompono il suo sonno, ad avvertirla di un potenziale pericolo quando qualcuno passa di là. Le donne per strada sono le più sole, mai o quasi ne vedi due sedute una accanto all’altra”.

Le storie di vita di chi passa per Binario 95 anche solo per una doccia o un cambio d’abiti raccontano tutte di una povertà, che non è mai solo materiale, ma è fatta anche di assenza di relazioni e di affetti. È quasi impossibile dire se nasca prima l’uovo o la gallina, ma sono senz’altro le donne a soffrire maggiormente di questa situazione. “Vivono in un isolamento anche psichico, parlano da sole, si costruiscono una casa rifugio e rifiutano ogni forma di contatto, anche con gli operatori – prosegue Schedid –. Non sempre, però, le donne sono sole. A volte per affrontare i pericoli della strada si appoggiano a un uomo. Un uomo che fornisce loro protezione, ma che spesso le tiene in pugno e costituisce una minaccia lui stesso. Si tratta spesso di relazioni tossiche, violente. Le donne si trovano dinanzi a una scelta difficile: subire la violenza di un compagno o essere esposte alla violenza di chicchessia”.

Da qualche mese anche Chiara gravita in area stazione. Paffuta, gioviale, il volto incorniciato di riccioli castani, ha solo 19 anni. Chiara ha una storia familiare difficile, è cresciuta in una comunità per minori non lontano da Roma. Oggi va in giro con il compagno Vincenzo, di almeno una ventina d’anni più grande di lei e la notte lo segue tra le fronde di Villa Borghese, dove i due hanno trovato un riparo lontano dalla confusione di Termini, teatro nelle ultime settimane di alcuni episodi di criminalità, che hanno attirato l’attenzione delle forze dell’ordine e dell’opinione pubblica. Anche Jolanta ha un compagno. Provengono entrambi dalla Lituania, nell’ex Unione Sovietica, sono arrivati in Italia dopo molti giri per l’Europa. Non hanno documenti, finora non sono riusciti neppure a ottenere lo status di apolidi. Da 15 anni la stazione Termini è casa loro.

Copyright Difesa del popolo (Tutti i diritti riservati)
Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)