Quel sogno ad occhi aperti. Ferlinghetti ha incarnato l’anima mistica della generazione Beat
La scomparsa di Lawrence Ferlinghetti ci riporta agli anni Cinquanta della generazione beat e dell’utopia di una nuova società d’amore e di pace.
Il 24 marzo avrebbe compiuto centodue anni, Lawrence Ferlinghetti, uno dei maestri di quella che poi sarebbe stata chiamata beat generation, spentosi il 22 febbraio scorso. Fu lui, figlio di un emigrato bresciano che aveva raggiunto gli Stati Uniti nel 1894, e di Lyons Albertine Mendes-Monsanto, di origine ebrea sefardita, divenuto libraio ed editore, a tenere a battesimo due autentici miti di quella generazione, Jack Kerouac e Allen Ginsberg, di cui pubblicò nel 1957 l’allora scandaloso “Howl” (Urlo) che gli costò la galera per i contenuti a quel tempo ritenuti eccessivi (droga, omosessualità, denuncia del conformismo dell’americano medio), e che divenne uno dei manifesti di una nuova cultura, non solo giovanile. Poeta lui stesso il cui capolavoro, “A Coney island of the mind” (1958) tradotto da noi (lo fece perfino Vittorio Gassman, che amava la poesia beat, nel suo “Vocalizzi”) come “Una Coney Island della mente”, è uno dei manifesti di quella nuova sensibilità stanca dei miti americani dei Cinquanta, bella moglie, macchina da far invidia, villetta con giardino e piscina, nauseata da un materialismo consumistico che stava spegnendo lo spirito della gente. Ferlinghetti ha infatti incarnato l’anima mistica di quella generazione, influenzata anche dal trascendentalismo di Emerson e Whitman, che spesso emerge nelle sue poesie: “cercate di raggiungere l’irraggiungibile” è stata una delle esortazioni più famose ai suoi lettori, ai giovani poeti, a quanti, come Ginsberg, si stavano preparando al grande e periglioso viaggio nei monasteri d’oriente e anche negli allucinogeni.
Beat è stato un termine abusato (fu attribuito anche ai giovani e soprattutto ai gruppi musicali dei Sessanta e Settanta) su cui è stato molto discusso: secondo alcuni nacque da Kerouac, che non ha mai dimenticato le sue radici cattoliche, che lo intendeva legato alla beatitudine, ma sono molti coloro che in quella parola evidenziano il carattere di battitura, di sconfitta. Quando si sviluppò anche da noi l’attenzione verso quella generazione “battuta”, a metà degli anni Sessanta, l’originario fenomeno beat era di per sé tramontato. I suoi elementi base erano, ad essere sintetici, la ricerca di una vita più autentica attraverso il viaggio in autostop o verso le grandi patrie religiose del buddismo, dell’induismo e del taoismo, l’uso di lsd o di sostanze ricavate da funghi, come il peyote, che alterano gli stati di coscienza, il rifiuto delle convenzioni sociali, e come abbiamo visto, dei miti della buona borghesia, del denaro, e della guerra. Ferlinghetti, che si era arruolato in marina, aveva fatto la sconvolgente esperienza di arrivare a Nagasaki subito dopo il lancio dell’atomica. Quello che lui stesso chiamò l’inferno lo convinse che la guerra non era slancio individuale e duello uno contro uno, ma carneficina nei confronti di chi non può difendersi, bambini e vecchi innocenti.
Da lì iniziò il suo percorso di pacifismo militante che fu alla base poi della Generazione dei fiori e della controcultura Hippie che culminò con il sogno di una vita a contatto con la natura e senza costrizioni sociali, contrassegnata dagli episodi in cui musica e vita diventarono, per un breve periodo, un tutt’uno inseparabile: venne il tempo di Woodstock e dell’isola di Whight.
A mediare tra origini della beat generation e nuova sensibilità giovanile furono anche i quattro che cambiarono la storia non solo della musica, i quali, fin dal nome Beatles, richiamarono la sensibilità che aveva tentato di cambiare l’America dei Cinquanta. E questa che (ri)comincia con i quattro baronetti è una storia che continua ancora oggi, in tempi di un festival di Sanremo spettralmente deserto, ma che qualche anno fa ha visto su quel palco suonare la nuova musica elettrica “beat”.