Non autosufficienza, riforma al primo passaggio: “La sfida è farla diventare una priorità politica”

Stato e Regioni, assistenza domiciliare, indennità di accompagnamento, badanti e caregiver, residenzialità: con il coordinatore scientifico del Patto per la non autosufficienza, Cristiano Gori, proviamo a capire meglio obiettivi e vantaggi del progetto di riforma inserito nel Pnrr 

Non autosufficienza, riforma al primo passaggio: “La sfida è farla diventare una priorità politica”

In extremis, ma il primo passo è compiuto. L’ultimo Consiglio dei Ministri dell’esecutivo guidato da Mario Draghi ha approvato ieri il testo del disegno di legge delega di riforma del sistema di assistenza agli anziani non autosufficienti. E’ il primo tassello di quel progetto – inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza - che vorrebbe condurre alla nascita di un Sistema nazionale Assistenza Anziani, con l’obiettivo di migliorare la loro vita e quella delle loro famiglie in un paese in cui l’incidenza della popolazione anziana è destinata ancora a crescere e il sistema di welfare dedicato sconta una debolezza strutturale. Il testo della legge delega, dopo il passaggio in Conferenza Stato Regioni, sbarcherà in Parlamento, con le nuove Camere chiamate ad approvarlo tassativamente entro il 31 marzo 2023: tempi ristretti, come quelli di tutte le riforme inserite nel treno chiamato Pnrr. 

Il testo approvato dal Consiglio dei Ministri, coordinato dalla Presidenza del Consiglio con i ministeri del Lavoro e delle Politiche sociali e della Salute, è anche il frutto del lavoro, della riflessione e delle proposte avanzate dalla Commissione Paglia, dalla Commissione Turco e dal “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza”, raggruppamento di 52 organizzazioni che da tempo mette in evidenza la necessità di una riforma sul tema. Per capire meglio il percorso, gli obiettivi e i prossimi passi, abbiamo chiesto aiuto all’ideatore e coordinatore scientifico del Patto, Cristiano Gori, docente di Politica sociale all'Università di Trento.

Professor Gori, iniziamo dal contesto generale: da quanto tempo si parla in Italia di una riforma del sistema di assistenza agli anziani non autosufficienti? 
Una riforma sulla non autosufficienza è discussa senza esito in Italia dalla fine degli anni novanta del secolo scorso: in questo lasso di tempo si è andati vicini al risultato solamente in una circostanza, quando il secondo governo Prodi lavorò – era il 2007 - proprio su una legge delega apposita. Ma la caduta di quell’esecutivo nel gennaio 2008 azzerò il lavoro svolto e da allora non se ne è più parlato. Sono quindi ormai almeno 15 anni che il tema non è all’ordine del giorno. Nel frattempo i paesi europei simili al nostro hanno invece concluso le loro riforme: l’hanno fatto l’Austria nel 1993, la Germania nel 1995, la Francia nel 2002, la Spagna nel 2006. E in tutti questi casi la riforma ha modificato profondamente il settore, rafforzandolo. 

A cosa sono dovuti i nostri ultimi 15 anni di silenzio politico sul tema?
Ad una questione di priorità. Con la grande crisi economica iniziata proprio nel 2008 i temi della povertà, della disoccupazione, della necessità di un sostegno economico sono diventati cruciali e la priorità dell’intero decennio è diventata dunque la lotta alla povertà. Del resto anche quello era un tema sul quale l’Italia scontava un grandissimo ritardo rispetto agli altri paesi europei ed è chiaro che se ti trovi ad attraversare fasi storiche complesse con un sistema di welfare carente su molti versanti, accade nel concreto che alcune esigenze passino davanti alle altre, fino al punto di far sparire le seconde dall’agenda politica. 

Il sistema di welfare per gli anziani chiama in causa soprattutto regioni e comuni. Perché serve una normativa nazionale?
Le normative di rilievo sono regionali e comunali, ma in questo momento solo una normativa nazionale può davvero fare la differenza: può infatti definire gli obiettivi del sistema, può introdurre i livelli essenziali, può dedicare più fondi. E’ una grande occasione che non va persa. Del resto, non si tratta più di capire che cosa fare, si tratta di riuscire a farlo: le nostre proposte infatti non sono innovative rispetto al dibattito (perché riprendono riflessioni da tempo diffuse fra gli addetti ai lavori) ma sono innovative rispetto alla realtà del welfare. 

Non c’è il rischio che una normativa nazionale resti lettera morta?
Serve un approccio concreto: le politiche nazionali si fanno attraverso la definizione di indicazioni statali (principalmente livelli essenziali) che devono essere sociali e sanitari insieme. E’ irreale immaginare che lo Stato dia indicazioni eccessivamente dettagliate ai territori, dato che c’è un’autonomia organizzativa e anche una differenza di modelli che le varie regioni hanno scelto per se stesse. Lo Stato quindi deve dare ai territori poche indicazioni, ma chiare. Al tempo stesso occorre valorizzare l’esistente: le realtà territoriali in cui le cose già funzionano bene non dovranno fare rivoluzioni. Insomma, bisogna evitare sia l’eccesso di politiche prescrittive, sia una loro applicazione indifferenziata. 

Andiamo al dettaglio del testo della delega approvata dal Consiglio dei Ministri e del giudizio che ne date come “Patto per un nuovo welfare”.
Ci sono due grandi pilastri che devono essere tenuti presenti: il primo riguarda la governance e la regolazione del sistema, il secondo riguarda la definizione dei singoli interventi. Ebbene, rispetto al primo punto il testo fa proprio l’impianto proposto dal Patto, prevedendo l’introduzione di un Sistema nazionale assistenza anziani attraverso il quale l’insieme dei diversi interventi per la non autosufficienza sono programmati congiuntamente dai diversi attori responsabili ad ogni livello di governo, quindi Stato, Regioni e territori. La norma prevede un’integrazione del livello organizzativo fra ambiti sociali e distretti sanitari dei territori, e una riforma dei percorsi di valutazione, che passano dagli attuali cinque/sei a due, uno nazionale e uno regionale, che vengono messi in connessione fra di loro. Quello regionale, gestito dalle UVM (Unità di Valutazione Multidisciplinare), rimane invariato; quello nazionale invece assorbe le valutazioni che oggi vengono fatte per le misure statali e ne prevede una sola, frutto di uno strumento molto più adatto di quelli attuali nel valutare le condizioni degli anziani.

Il vostro è quindi un giudizio positivo. Non c’è niente da cambiare?
Nel testo si ritrovano i tre tasselli del nostro approccio integrato: a livello di sistema, a livello organizzativo e a livello di percorso individuale degli anziani e delle loro famiglie. Certo, a nostro parere sul testo vanno comunque fatte una serie di migliorie tecniche, ma l’impostazione ci persuade perché è la nostra. Insomma, siamo contenti perché è stato assunto il nostro approccio che riduce la frammentazione. Dopo di che, questo è davvero solamente un punto di partenza: in materie come queste poi la parte veramente difficile è quella dell’attuazione. 

Riguardo invece al secondo pilastro, quello che riguarda la definizione dei singoli interventi? 
La parte degli interventi previsti per la non autosufficienza è più in chiaroscuro: la stessa formulazione del testo è stata infatti limitata dal fatto che qualunque intervento migliorativo per la non autosufficienza richiede maggiori finanziamenti, e ad oggi la delega non ne prevede. Ci sono comunque aspetti positivi: uno riguarda la riforma della domiciliarità, con un’assistenza domiciliare che non duri due o tre mesi (come avviene oggi con l’Adi) ma la cui durata sia legata al bisogno dell’anziano non autosufficiente, che viene accompagnato per tutto il tempo necessario. E poi risposte multiprofessionali, con assistenza infermieristica, presenza degli Oss (operatori socio sanitari), più sostegno psicologico, più aiuto ai caregiver familiari. Temi che hanno trovato tutti d’accordo, ma che evidentemente richiedono fondi nuovi. 

Ci sarà una novità anche per l’attuale indennità di accompagnamento?
Si, il testo della delega apre la strada ad una riforma dell’indennità di accompagnamento nella direzione di farla diventare, come da noi suggerito, una prestazione universale. Questo vuol dire essenzialmente due cose: intanto che non ci saranno più importi uguali per tutti ma importi graduati in base al bisogno assistenziale, e in secondo luogo la possibilità di usare questi soldi non più solo come contributo monetario indistinto ma anche come servizi organizzati, ad esempio per l’assunzione di badanti, incentivando questa opzione (e quindi dando più fondi a chi sceglie questa strada). 

E quali sono invece, se ci sono, i punti deboli del testo di riforma?
Ci sono aree presenti nella riforma sulle quali manca ancora una compiuta idea di progetto. Sono in particolare due. La prima è l’area della residenzialità: il dibattito di questi anni è servito a superare le ipotesi di peggioramento e di riduzione dell’ambito residenziale che erano emerse durante le prime fasi della pandemia da Covid-19. Ma quale possa essere la strategia nazionale per promuovere la qualità delle strutture residenziali in tutta Italia è un tema ancora tutto da affrontare. E le indicazioni della legge sono molto generiche. L’altro aspetto debole riguarda le badanti: è vero che il loro ruolo è incentivato dall’aver previsto un’opzione servizi nello sviluppo della nuova indennità di accompagnamento, ma è altrettanto vero che manca ancora un progetto complessivo che metta insieme l’esigenza della promozione di un’occupazione regolare, il sostegno ai costi delle famiglie e lo sviluppo delle competenze e di un lavoro di qualità. 

La palla passa ora al Parlamento e al nuovo Governo: quali sono le principali sfide che si trovano davanti? 
Il testo definitivo della legge delega deve essere approvato dalle Camere entro il marzo 2023: è ragionevole attendersi che il nuovo governo voglia dire la sua sulla materia e che il testo subirà delle modifiche. Dal nostro punto di vista la prima questione da affrontare sarà appunto quella di migliorare il testo: ci sono delle parti buone ma c’è ancora un importante lavoro da fare sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista strategico. Il secondo punto che chiama in causa Governo e Parlamento è la scelta di destinare nuovi finanziamenti, essenziali allo sviluppo della riforma. La terza questione, legata alla seconda, riguarda l’inizio di una fase attiva già prima della fine dell’iter della riforma: poiché infatti per i decreti delegati il governo avrà tempo fino al marzo 2024, questa legge inizierà a toccare terra, cioè a produrre delle conseguenze sulla vita delle persone, solo nell’autunno 2024. Noi pensiamo che occorra fare qualcosa prima di quella data. Se la riforma apre una prospettiva di medio-lungo periodo, già nel breve periodo, e quindi dalla prossima legge di bilancio, ci vorrebbero delle risorse per iniziare a realizzare sui territori alcune parti della riforma. Ma per ottenere finanziamento da Governo e Parlamento, il tema della non autosufficienza deve diventare una priorità politica: e questa, in ultima analisi, è la vera sfida che attende il nuovo esecutivo.

Stefano Caredda

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)