L’acquisto che estingue. Il nesso tra il rischio d'estinzione di molte specie animali e le reti di commercio internazionale
Una complessa ricerca realizzata dall'Università di Sydney in Australia, ha provato a quantificare l’impatto che le abitudini di consumo dei cittadini in 188 Paesi (attraverso il commercio e le reti di approvvigionamento) hanno sul pericolo d’estinzione di più di 5000 specie.
Come è noto, migliaia di specie animali attualmente sono a rischio d’estinzione. E, purtroppo, quasi sempre, a causa di attività umane (lecite e non). A volte, non si tratta di un nesso diretto e immediatamente identificabile, bensì di una catena di effetti, difficilmente individuabili, che si sommano fino al disastroso risultato finale.
Nelle fitte giungle del Camerun e dei paesi vicini, ad esempio, la popolazione del gorilla di pianura occidentale è diminuita di quasi il 20% tra il 2005 e il 2013, scendendo a circa 360.000 individui, e si prevede che il loro numero si ridurrà di un altro 80% nei prossimi 65 anni. Le cause? Ricerche effettuate, dimostrano che le materie prime estratte dal loro habitat e utilizzate per i prodotti fabbricati in Cina e poi venduti negli Stati Uniti e altrove hanno contribuito a questo declino. Il commercio internazionale, del resto, da solo determina il 30% delle minacce di estinzione delle specie.
Di recente, una complessa ricerca (pubblicata su “Scientific Reports”), realizzata da Amanda Irwin e colleghi dell’Università di Sydney in Australia, ha provato a quantificare l’impatto che le abitudini di consumo dei cittadini in 188 Paesi (attraverso il commercio e le reti di approvvigionamento) hanno sul pericolo d’estinzione di più di 5000 specie terrestri di anfibi, mammiferi e uccelli, già incluse nella “lista rossa” delle specie minacciate, redatta dall’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN).
Per sviluppare il loro studio, i ricercatori coordinati da Irwin si sono avvalsi di un particolare metro di misura, denominato “impronta del rischio di estinzione”; con tale metodo hanno scoperto che ben 76 paesi sono “importatori” netti di questa impronta, ovvero trainano la domanda di prodotti che contribuiscono al declino delle specie minacciate all’estero. Tra questi, gli Stati Uniti, il Giappone, la Francia, la Germania e il Regno Unito. Altri 16 paesi – tra cui Madagascar, Tanzania e Sri Lanka – sono invece definiti “esportatori” netti, dal momento che la loro impronta del rischio di estinzione è determinata soprattutto dalle abitudini di consumo di altri Paesi. Nei restanti 96 paesi esaminati dalla ricerca, il consumo interno è il fattore più significativo del rischio di estinzione all’interno del paese stesso. Più in dettaglio, Irwin e colleghi hanno potuto determinare come l’impatto del consumo da parte di particolari settori (ad es. l’agricoltura o l’edilizia) abbia causato i rapidi declini di specifiche popolazioni animali. “Quello che stiamo facendo – spiega la ricercatrice – è tracciare il flusso di denaro attraverso l’economia globale fino ad arrivare a quello che chiamiamo ‘domanda finale’ o ‘consumo’, che è il luogo in cui io e voi spendiamo i nostri soldi”.
Così è emerso, ad esempio, che in Africa occidentale il 44% del rischio di estinzione del gorilla occidentale (rappresentato prevalentemente dal gorilla di pianura occidentale) è frutto di “esportazione”, in connessione con i consumatori internazionali. La fetta più grande (14%) di questa impronta esportata, infatti, deriva dalla domanda cinese di materie prime come il legno e il ferro. In parole povere, gli alberi africani abbattuti nell’habitat dei gorilla potrebbero benissimo finire come pavimentazioni in Asia. Ecco perché “se non comprendiamo la connessione tra consumo e produzione – precisa Irwin – che alla fine avviene attraverso queste molte, molte, molte catene di approvvigionamento interconnesse e flussi di denaro, allora non siamo davvero in grado di rallentare il processo nei punti in cui si genera”.
Un altro esempio: il ratto gigante malgascio, un mammifero che può saltare fino a circa un metro di altezza e si trova solo in Madagascar. Ebbene, questo studio ha dimostrato che la domanda di cibo e bevande in Europa contribuisce all’11% dell’impronta del rischio di estinzione di questo animale, in seguito alla perdita di habitat causata dall’espansione dell’agricoltura. E che dire della rana di ruscello “Nombre de Dios” dell’Honduras (Craugastor fecundus)? Anche questo anfibio rischia l’estinzione a causa del taglio degli alberi e della deforestazione legati all’agricoltura (consumo di tabacco, caffè e tè).
Gli autori dello studio sperano che i loro risultati possano aiutare i consumatori, le aziende e i governi a orientare le proprie scelte, anche tenendo conto della salute delle specie. Anche se ciò è stato fatto in passato per alcuni ecosistemi come le foreste, il nuovo studio potrebbe aiutare a espandere il numero e il tipo di prodotti che tengono conto delle specie in pericolo. Si potrebbe ipotizzare, ad esempio, di dotare alcuni prodotti (tavoli, sedie, eccc…) di etichette che certifichino che il legno usato per la loro costruzione non ha distrutto l’habitat di una data specie. O, magari, un’azienda produttrice di caffè o tè potrebbe assicurarsi che la sua filiera di approvvigionamento non includa prodotti coltivati in aree vitali per gli anfibi, o che sono deforestate a scopo agricolo. I governi, poi, potrebbero valutare nella loro contabilità economica gli effetti di specifiche industrie sulle specie della Lista rossa IUCN e, di conseguenza, negoziare accordi commerciali internazionali che garantiscano la protezione degli hotspot di biodiversità.
In definitiva, nell’attuale mondo globalizzato, non è più sufficiente l’impegno di alcuni singoli paesi, che proteggono le specie locali minacciate, senza rendersi conto di quanto sia enorme l’impatto dei propri acquisti sulle specie di altri paesi. Basti pensare, per esempio, agli Stati Uniti, che hanno la più grande impronta di consumo globale, pur avendo protetto con efficacia le specie in pericolo a livello nazionale.
“Dobbiamo chiederci – conclude Juha Siikamӓki, coautore dello studio – se una parte di questo relativo successo sia stato ottenuto facendo danni altrove. È sufficiente concentrarci solo su ciò che accade nel nostro paese se il nostro consumo, in ultima analisi, causa impatti negativi altrove? Dovremmo pensare alle nostre responsabilità in un’ottica più ampia”.