Il progetto “Wellenbrecher” (frangiflutti): in terapia intensiva per raccontare la banalità del bene
Era fine novembre 2020 quando, per la prima volta, varcava la soglia della terapia intensiva Covid dell’ospedale di Bolzano. La sua intenzione era quella di documentare con un paio di scatti quello che realmente accade dove si combatte il Covid in prima linea, così da mettere a tacere le tante, troppe, fake news che si moltiplicavano, soprattutto con e sui social. Ma quello che ha visto quel giorno, lo ha spinto a tornare nella “zona sporca” per più di 80 volte, per raccontare con video ed istantanee, le persone – pazienti, medici, infermieri, operatori socio sanitari e tecnici – che quotidianamente affrontano la battaglia contro il virus. È nato così il progetto “Wellenbrecher” (frangiflutti) del 44enne videomaker e fotografo altoatesino Andrea Pizzini.
Era fine novembre 2020 quando, per la prima volta, varcava la soglia della terapia intensiva Covid dell’ospedale di Bolzano. La sua intenzione era quella di documentare con un paio di scatti quello che realmente accade dove si combatte il Covid in prima linea, così da mettere a tacere le tante, troppe, fake news che si moltiplicavano, soprattutto con e sui social. Ma quello che ha visto quel giorno, lo ha spinto a tornare nella “zona sporca” per più di 80 volte, per raccontare con video ed istantanee, le persone – pazienti, medici, infermieri, operatori socio sanitari e tecnici – che quotidianamente affrontano la battaglia contro il virus.
È nato così il progetto “Wellenbrecher” (frangiflutti) del 44enne videomaker e fotografo altoatesino Andrea Pizzini.
“Dopo aver vissuto dieci anni ad Anversa, città natale di mia moglie, a fine agosto 2020 ho fatto ritorno con la mia famiglia in Alto Adige – racconta al Sir – e siamo andati ad abitare a Merano. Sono rimasto molto colpito dal racconto fattomi dalla mamma di un compagno di classe di mia figlia. Infermiera nel reparto Terapia intensiva Covid di Merano, veniva accusata dalla gente per strada di essere un’attrice. Dicevano che lei e le sue colleghe si mettevano nei letti e facevano finta di essere malate per convincere le persone che c’era il Covid e che era molto pericoloso.
Ho deciso allora di andare in reparto e fare un paio di foto per mettere a tacere le tante bugie e mostrare quella che era veramente la situazione”.
Quando Pizzini chiede il permesso All’Azienda sanitaria dell’Alto Adige lo ottiene subito. Troppe le fake news che circolavano e l’idea di documentare quello che accadeva in prima linea ha incontrato un immediato consenso. A fine novembre 2020 Andrea Pizzini arriva al secondo piano della nuova clinica dell’ospedale di Bolzano, dove è stata allestita da zero la terapia intensiva Covid. Indossa per la prima volta camice, sovrascarpe, guanti, mascherina e tutte le protezioni necessarie per stare nella “zona sporca”.
Doveva essere una visita “una tantum”. E invece?Ero abituato alla triste conta quotidiana dei morti e sentivo ripetere che si trattava di persone anziane o con patologie pregresse e poi invece mi sono trovato di fronte persone giovani: ventenni, trentenni e quarantenni. Lì, distesi in quei letti.
Pensavo fossero tutti sedati, invece mi hanno spiegato che i farmaci usati per la sedazione sono molto forti e se usati in dosi massicce per periodi di tempo troppo lunghi potrebbero arrecare danni ai pazienti. Generalmente la permanenza di una persona in terapia intensiva è di pochi giorni, ma nel caso di malati di Covid-19, si parla di ricoveri anche di diverse settimane. Ho visto le sale piene di pazienti, ho parlato a lungo con il personale ed ho deciso di tornare per raccontare le loro giornate. L’ho fatto per 14 mesi. Sono stato soprattutto nella terapia intensiva Covid di Bolzano, ma sono andato anche nel reparto di Merano. È nato così il progetto “Wellenbrecher ”, che ho fatto e faccio a titolo totalmente gratuito. Foto e video delle interviste sono state pubblicate su Facebook e su YouTube .
Come si è organizzato per le riprese?
Ho cercato di conciliare la mia presenza in reparto con i miei impegni familiari e di lavoro. Generalmente restavo delle mezze giornate, cercando di vivere con il personale del reparto momenti come la colazione o il pranzo, quando c’erano il tempo e l’occasione per confrontarsi sui problemi che stavano affrontando. Ma ci sono state volte che mi sono fermato tutta la giornata. In reparto ho trascorso anche alcune notti.
Turni impegnativi quelli di chi opera in terapia intensiva Covid
I turni del personale sono generalmente di 12 ore, ma nessuno ha mai guardato l’orologio e quindi i turni diventavano spesso di 13-14 ore.
Bisogna considerare che dei circa 80 infermieri che si alternano nel reparto di Bolzano, solo una dozzina sono specializzati in terapia intensiva. Questo significa che il passaggio delle consegne a fine turno si allunga, perché c’è la necessità di spiegare molte più cose. Anche, semplicemente, come fare per girare un paziente intubato. Nessuno di loro si è mai lamentato delle ore di lavoro in più, anzi.
L’Alto Adige, in questa terza ondata, ha accolto anche pazienti Covid dalla Germania.
Quando la pandemia è arrivata in provincia di Bolzano, siamo stati noi a chiedere aiuto Oltralpe e a inviare pazienti in Austria. Poi, nella terza ondata, quando ad essere maggiormente colpita è stata la Germania, siamo stati noi ad accogliere pazienti tedeschi. È inoltre da sottolineare che all’inizio della pandemia, l’Alto Adige ha condiviso il suo know how con in Paesi di lingua tedesca. Nella primavera 2020 si è pensato di accogliere i pazienti Covid in un’apposita terapia intensiva allestita a Merano. Ed è qui che sono stati fatti i primi studi in lingua tedesca.La loro condivisione ha aiutato i Paesi confinanti di area tedesca a comprendere cosa era il Covid e quali erano cure e terapie che erano state messe in campo. Una forma di collaborazione transfrontaliera, questa, che ha permesso di far ancor più fronte comune contro la malattia.
Poi, con il diffondersi dei contagi, è stata aperta nella nuova clinica di Bolzano la terapia intensiva Covid con una trentina di posti letto. In Alto Adige non ci sono grandi ospedali, come in altre regioni d’Italia. C’è una rete di piccoli ospedali che hanno ricavato aree per accogliere i malati Covid. I pazienti più gravi vengono trasferiti a Bolzano, dove c’è l’Ecmo, la macchina cuore-polmone.
A Bolzano in questi mesi sono arrivati pazienti un po’ da tutta la provincia
La terapia intensiva Covid ha una parete finestrata che si affaccia sulla strada. Il personale del reparto veniva allertato in caso di trasferimenti e vedevamo arrivare le ambulanze. Non solo. L’inverno 2020/21 è stato particolarmente nevoso e molte volte ho visto arrivare le ambulanze cariche di neve. L’Alto Adige è costituito per il 90% da montagne. I volontari di Croce Bianca e Croce Rossa hanno guidato sui passi di notte, nella neve, per andare a prendere i malati Covid. Se necessario inerpicandosi fino all’ultimo maso, a 2.000 metri.
Volontari di cui nessuno parla, altoatesini consapevoli che era necessario fare di tutto per salvare una vita umana.
Se avessi avuto la possibilità di sdoppiarmi sarei salito volentieri anche su un’ambulanza per documentare quello che hanno fatto finora e quello che continuano a fare.
In tutti questi mesi trascorsi a documentare in prima linea la lotta contro il Covid, non ha mai avuto paura di contagiarsi?
Sono sempre stato con il personale nella “zona sporca”, ho trascorso ore accanto ai malati, ho raccolto le loro testimonianze, ma non ho mai avuto paura di prendere il Covid. Le misure e i sistemi di protezione adottati mi hanno sempre dato sicurezza. Anche la mia macchina fotografica e il microfono venivano sempre accuratamente disinfettati. È capitato che qualche volta il gel si sia infilato nei tasti bloccandoli e facendomi perdere parte delle registrazioni.
In terapia intensiva ha visto il male in faccia
È vero, in terapia intensiva Covid ho visto cosa può fare il male. Vedi morire tante persone, anche giovani. Ma ho visto soprattutto tanto bene. Ho visto persone unite da un obiettivo comune: salvare vite umane.
Ho visto un team di persone che ha dato e continua a dare il massimo per sconfiggere il virus. Ho visto infermieri accompagnare persone prossime alla morte, parlargli, tener loro la mano, accarezzarli con tenerezza per non farle sentire sole. In questi mesi ho visto più male fuori dalla terapia intensiva che dentro.Ho incontrato più cattiveria fuori, che dentro. Le chiamate anonime di notte sul mio telefono, gli insulti e le minacce sui social, le bugie e le false accuse.
In terapia intensiva ho visto quando siamo fragili, ma lì, nonostante tutto, mi sono sentito “protetto”. La vera follia l’ho incontrata fuori, parlando con gente che ancora oggi si ostina a dire che il Covid non esiste, che i vaccini sono pericolosi e non servono a niente e che si affida e crede ciecamente a quello che viene scritto sui social da perfetti sconosciuti, senza alcuna base scientifica.
Come prosegue ora il progetto “Wellenbrecher”?
Finora sono entrato più di 80 volte in terapia intensiva e ogni volta sono uscito con 4-5 ore di girato. Immagini attraverso le quali ho cercato di raccontare come si sta combattendo in prima linea contro il virus. Su YouTube e Fb ho pubblicato diverse foto e interviste a medici, infermieri, operatori socio assistenziali e a persone che sono riuscite a guarire dal Covid. In questo ultimo periodo sono tornato in reparto.La stragrande maggioranza dei ricoverati sono no-vax. Ho parlato con loro a lungo, ma – tranne in un paio di occasioni – nessuno vuole raccontare la sua storia, perché o è ancora convinto della scelta di non farsi vaccinare o perché ha paura della reazione della gente del paese, degli altri no-vax.
Con le immagini che ho girato finora ho in programma di fare un docufilm. Servirà parecchio tempo, anche perché i parenti di chi non ce l’ha fatta devono vedere prima il filmato e devono giustamente darmi la loro autorizzazione. Per tanti di loro il dolore della morte di un loro caro è ancora molto forte e non se la sentono ancora di vedere le immagini che ho girato. Per come me lo immagino, posso comunque dire fin da ora che non sarà un film sul virus. Sarà il racconto della quotidianità nella “zona sporca”, di piccoli gesti di umanità e attenzione tra pazienti e infermieri. Sarà un film sulla banalità del bene.