Il Sant’Antonio di Flaubert. Un Prometeo visionario. Nel romanzo dello scrittore francese emerge con forza la ricerca del senso. E di Dio

La storia di Antonio si interseca con quella dell’autore e con quella dei Manichei, dei Catari, degli Gnostici, e con quella contemporanea delle barricate parigine, della cacciata del re

Il Sant’Antonio di Flaubert. Un Prometeo visionario. Nel romanzo dello scrittore francese emerge con forza la ricerca del senso. E di Dio

Se invece di mettere timbri definitivi di ateo-credente-nichilista-romantico-materialista approfondissimo meglio la lettura di alcuni capolavori, ci accorgeremmo che il genio va oltre quelle classificazioni. Anche quando assistiamo ad un ritorno, come quello di “La tentazione di Sant’Antonio”, di Gustave Flaubert, ora ripresentata dall’editore Carbonio (174 pagine, 16,50 euro), ci rendiamo conto che avevano ragione Peirce e Umberto Eco: ogni lettura dello stesso testo rivela un nuovo libro. Soprattutto nel caso di un’opera sulla quale il misantropo, asociale, isolato scrittore ha lavorato per molti anni, scrivendone tre stesure che hanno trovato finalmente la luce nel 1874.

Qui si assiste ad uno sprofondamento non nel delirio o nell’allucinazione, ma nei dubbi, anche e soprattutto quelli propri, nelle vite dei santi, specie gli anacoreti e i solitari, nelle eresie, nelle storie dei miracoli e nelle radici stesse della fede. Fino all’apparizione solare in cui “dardeggia il volto di Gesù Cristo”.

Quando il giovane Gustave (aveva 24 anni) viene in Italia al seguito della famiglia che accompagnava la sorella Caroline in viaggio di nozze, rimane letteralmente stregato da un dipinto attribuito allora a Pieter Brueghel, “Le tentazioni di sant’Antonio”, nel palazzo Balbi di Genova, ora invece indicato come opera di Jan Verbeeck.

Il santo su cui Flaubert mette ripetutamente la penna deve fare i conti con una storia, quella delle eresie, che Gustave leggeva avidamente. La storia di Antonio si interseca con quella dell’autore e con quella dei Manichei, dei Catari, degli Gnostici, e con quella contemporanea delle barricate parigine, della cacciata del re, dell’avvento della repubblica, tutti eventi che Flaubert vedeva come il dono acheo di una modernità fatta di idiozia e superficialità.

Lo scetticismo entra sicuramente nel testo, come vi entra però l’apparizione sacra, come anche la seduzione, mai definitiva, di un nuovo pensiero che aveva trovato in Giordano Bruno un tragico e insieme suggestivo punto di riferimento: l’infinitezza innumerabile e indicibile dell’universo. Praticamente l’impossibilità di conoscere davvero, l’assoluta inutilità della cultura, perché la tentazione che lo sconvolge di più non è quella dei demoni, dei mostri, del diavolo stesso, ma quella del saggio Apollonio che gli presenta il conto di una visione della divinità come sonno “nel più profondo dell’assoluto, nell’Annientamento”. Sembra quasi di intravedere le parvenze di un aurorale principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui è il punto di vista che crea le cose, le quali però potrebbero non esistere, almeno nei modi che crediamo.

La ragione vacilla, in questo lungo cammino tra i deliri e la ricerca di un senso: “Crede come un bruto alla realtà delle cose”, afferma sconsolato il fantasma di Apollonio, propugnatore di una visione del mondo tra il pitagorico e il buddismo. Una delle seduzioni è quella di sapere ogni cosa, ma ve n’è un’altra più profonda e affascinante: non sapere, rifiutare la conoscenza per immergersi semplicemente nel flusso delle cose.

Perché “La tentazione di sant’Antonio” è un libro da (ri)leggere? Perché, in un Ottocento che si avviava verso un materialismo deterministico, in una cieca fiducia solo nel qui e nell’ora, si fanno di nuovo vivi il dubbio e la ricerca, come anche in Baudelaire, in Hofmannsthal, in un pensiero complesso in cui ragione, fede, superstizione, mito, cultura e negazione di quella cultura sono tutt’uno. Perché oggi ci aiuta a capire il mondo di sirene, falsi miti e vuoti estetismi in cui ci siamo cacciati.

Come ricorda Bruno Nacci nella sua introduzione, Flaubert aveva scritto di sentirsi “un mistico che non crede a niente”: l’immersione nella visione, l’abbandono a Dio al di là della cultura borghese, contro una devozione fatta solo di parole d’ordine e di ripetizioni rituali, la tentazione dell’afasia, poiché il divino non può essere detto, fanno di questo prometeico racconto un rilevante tratto di sentiero alla ricerca del Senso.

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Fonte: Sir