I tre libri del mese. La regina, la signora delle fiandre, il senso del cammino.
Se uno si dovesse chiedere, dopo l’esposizione mediatica causata dalla scomparsa di Elisabetta II e dall’inevitabile profusione di libri commemorativi: -sì, va bene, lutto, commozione, storia con la maiuscola, ma prima? che ne dicevano i libri?- allora farebbe bene a leggere La sovrana lettrice, uscito nel 2007 e tradotto da noi nel 2011, di Alan Bennet.
Perché è pur sempre un romanzo, quindi con licenza di creare, alludere, sfidare lo spazio-tempo (come accadde negli Ottanta del Novecento con la gran moda del medioevo narrato e reinventato), ma anche con un accattivante invito a crederci, a dire a noi stessi, beh, sì, in effetti, se Elisabetta è anche quella del film Una notte con la regina, tratto dalla vera “fuga” delle due principesse nel maggio 1945, in una Londra in festa per la vittoria, allora può esser vera anche questa narrata da un autore-attore-regista che già di altri regnanti, per la precisione Giorgio III, si è interessato. Doppiamente intrigante, perché Elisabetta è “spiata” -è un racconto, ricordalo, lettore!- mentre inizia ad amare i libri, fino al punto di imbarazzare la corte e i politici (che i libri qui sembrano non averli molto in considerazione) non per consigli di aristocratici intellettuali, ma per aver attaccato bottone con un libraio ambulante fuori dalle cucine regali.
E allora inizia il divertimento di una Elisabetta che pone imbarazzanti domande su Genet, Ivy Compton-Burnett, Nancy Mitford, Henry James, E. M. Forster, T. S. Eliot e molti altri ai malcapitati primi ministri, ambasciatori, regnanti che tentano di cambiare discorso o di salutare la gente, cosa che abitualmente si guardano bene dal fare.
Un libro leggero, certo, avvolto da una atmosfera -è stato scritto più di dieci anni fa- di intrigante enigma (lei era davvero così?), ma che lascia sedimentare le domande profonde sulla lettura e ai suoi rapporti con la realtà: leggere fa bene, certo, ma se c’è un tempo per ogni cosa come dice l’Ecclesiaste, c’è un tempo anche per lasciare anche la lettura prima che diventi una prigione? Per meglio dire, il libro deve aiutarci a capire, ma poi dobbiamo tornare all’azione e mettere in pratica quello che la scrittura ci ha insegnato? Questi ed altri inquieti interrogativi ci lascia un libro -talvolta anche un po’ troppo esplicito nel linguaggio- che è lo specchio di un tempo irrimediabilmente concluso con la scomparsa della sua protagonista.
Alan Bennet, La sovrana lettrice, Adelphi, 104 pagine, 13,50 euro.
Di un’altra donna che suo malgrado si è trovata a fare i conti con il potere parla la narrativa dei nostri giorni: si tratta di La Signora delle Fiandre, un libro che dimostra come il romanzo storico non sia mai tramontato, e come soprattutto sia possibile conciliare ciò che aveva spinto Manzoni alla clamorosa denuncia della sua fine, e quindi anche alla condanna del suo capolavoro: per lui non era possibile mettere insieme invenzione e racconto storico, amen. Ma don Lisander era un perfezionista, perennemente afflitto da sensi di colpa, ripensamenti, e da una mania di perfezione che lo aveva portato a scrivere, riscrivere, fare e disfare la storia che lo ha consegnato alla memoria, letteraria e non solo.
Giulia Alberico, scrittrice, collaboratrice delle pagine culturali dell’Osservatore Romano riesce là dove Manzoni temeva ci fosse il tranello: un racconto troppo ben riuscito tradisce paradossalmente la verità storica. Se gli scrittori avessero seguito il suo monito non avremmo avuto le Memorie di Adriano della Yourcenar, per non parlare delle consapevoli e umoristiche contraffazioni del Nome della rosa del compianto Umberto Eco.
Nel suo racconto Margherita, la figlia naturale di Carlo V, riconosciuta e assai stimata dall’imperiale padre, tanto che le affidò importanti zone dei suoi domini, appare nella sua realtà storica ma anche nelle sue profondità di persona. Una persona che non ha conosciuto l’amore perché costretta dalle politiche che intrecciavano potere temporale, impero, Riforma, a essere pedina nuziale di consolidamento o inaugurazione di nuovi equilibri. Non lamentazioni di un femminismo che non c’era, non intrusioni psicoanalitiche, perché questa storia sembra parte integrante di due tempi, quello di noi lettori e quello narrato, senza narcisismi iper-culturali con il senno del poi, ma con la naturalezza di una leggera, e insieme profonda, affabulazione.
La mano dell’autrice sembra sparire, come nelle convinzioni naturalistico-veriste, per lasciare posto alla protagonista, ai suoi ricordi, ai desideri, alle profonde riflessioni sulla bellezza, non della corte e del potere, ma della natura degli Abruzzi che la hanno ospitata fino alla fine.
Giulia Alberico, La Signora delle Fiandre, Piemme, 349 pagine, 17,50 euro.
Le inquiete domande sul senso del cammino della vita non sono solo quelle che si pongono i grandi, ma anche quelle di tutti noi. Ad esempio quelle di un uomo che ama la montagna. Non può più salirvi, perché è alla fine del suo percorso. E la montagna è stata una importante parte di quella strada. In L’uomo che guardava la montagna, Massimo Calvi, caporedattore e editorialista di Avvenire, racconta un tramonto attraverso il ricordo delle salite sui due versanti della montagna, quello assolato e verde e quello orientato a nord, brullo, osseo, in un simbolismo che ricorda da vicino il fluire instabile di io-natura di alcuni racconti che hanno fatto il Novecento, come La montagna incantata di Thomas Mann o Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger.
L’uomo che attende la fine sta cercando la pace interiore attraverso la comunione con ciò che sembra esterno a noi, ma che nel racconto si manifesta come epifania del sé profondo. Segno di una partecipazione attiva, quando la montagna era compagna reale dei suoi movimenti e del suo voler salire, e della riappropriazione dei ricordi non come nostalgia, ma come parte reale, attuale di un sé che di quella montagna viva, come una qualsiasi creatura, si è nutrito come al seno di una grande, arcaica madre.
La montagna come tempio in cui non si entra a mani vuote è una delle pagine più profonde di una storia che parte e termina con una fine, ma che ammonisce a non vedere nella bellezza del passato solo rimpianto, sebbene unità viva con gli altri, con l’amore di chi ha scelto di condividere gioia e pena, con i figli che rappresentano una zona di noi stessi che riemerge e ridiventa a sua volta montagna.
Proust avrebbe detto che le fanciulle in fiore non torneranno più a passeggiare al Bois de Boulogne, semplicemente perché sono entrate in noi, nella nostra attualità in costante, inarrestabile movimento. E questo è il messaggio di una storia -oggi di gran moda- di montagne, ma anche del rapporto profondo tra l’uomo, il suo passato, la grande madre.
Massimo Calvi, L’uomo che guardava la montagna, San Paolo, 194 pagine, 16 euro