Donne vittime di violenza, “la dipendenza dall’altro è la trappola in cui sono cadute”
Il racconto dell’accoglienza presso alcuni servizi della Comunità di Capodarco di Fermo di donne che hanno subito violenza “mettendo a repentaglio anche la tutela dei figli”. La responsabile: “Sono spesso donne che trovano il coraggio di denunciare dallo sguardo impaurito o dalle parole di un figlio, ma che tendono a tornare sui propri passi dopo la denuncia"
FERMO - “Per una donna vittima di violenza aprirsi alla possibilità di un percorso psicoterapico vuol dire avventurarsi in un lungo viaggio alla scoperta di sé. Sono donne a cui è stata negata per così lungo tempo la possibilità di esprimere i propri bisogni e di adoperarsi alla realizzazione dei propri desideri, che hanno smesso di chiedersi quali siano le scelte di vita più adatte a loro”. A parlare è la dott.ssa Caterina Graziani Colarizi, psicoterapeuta dell’Associazione Mondo Minore , una delle realtà della Comunità di Capodarco di Fermo fondata nel 1999 per dare risposta specifica alle tematiche del disagio minorile. L’Associazione dispone di una varietà di servizi, fra questi, le Comunità educative Sant’Anna di Fermo e Valmir di Petritoli, offrono la possibilità alle mamme autorizzate dal Tribunale per i Minorenni di seguire i figli in struttura. A raccontarci la realtà di un’accoglienza così delicata, nella Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne è Monia Isidori (responsabile della Sant’Anna).
“Dal 2009 tra le tante mamme accolte, numerose sono state le donne vittime di violenza di genere arrivate in seguito a denunce sporte verso i compagni o a segnalazioni di familiari, insegnanti o altri operatori. Appartengono a tutte le fasce d’età. Giovanissime ragazze istruite e con un buon lavoro, provenienti da famiglie spesso ignare, che scappano da compagni anch’essi giovani e aggressivi; donne più adulte, che hanno sopportato anni di matrimonio violento e per timore del giudizio sociale non hanno mai trovato la forza di denunciare, fino a quando una paura più forte per la loro incolumità le ha spinte a farlo; donne straniere provenienti da contesti culturali ove non è loro permesso autoaffermarsi individualmente e che nella scoperta di un ruolo femminile più emancipato, non vengono riconosciute dai propri mariti”.
“Le mamme che arrivano - prosegue la Isidori -, hanno subito pesantemente violenza, in maniera continuativa e grave dal proprio compagno, mettendo a repentaglio anche la tutela dei figli che non sono stati adeguatamente protetti. Sono spesso donne che denunciano in preda all’ennesimo e più violento attacco, che trovano il coraggio dallo sguardo impaurito o dalle parole di un figlio, ma che tendono a tornare sui propri passi dopo la denuncia, ritrattando, sminuendo, raccontando che ‘in fondo era solo un litigio di gelosia’. Donne così occupate a mantenersi in piedi, a non soccombere, che non hanno potuto dedicarsi adeguatamente ai figli, a riconoscere i loro bisogni di crescita, finendo per esporli a forme di violenza assistita che si ripercuoteranno sulla costruzione della loro identità e sulla stabilità emotiva. Ci sono bimbi molto piccoli, neonati, che mostrano i segnali di un sistema di allarme eccessivo, maturato in un ambiente domestico poco rassicurante. Quasi tutte all’inizio, avvertono come profondamente ingiusto che da vittime, siano loro a dover compiere il percorso in struttura, piuttosto che i loro partner. Solo quando accedono a un processo di cambiamento comprendono come questa sia un’opportunità, non solo per continuare a crescere i propri figli in maniera più competente, ma anche per prendersi cura di sé e riappropriarsi pianamente della propria vita. Essendo così diverse, le accoglienze necessitano di un approccio e un percorso individuale dove gli operatori delle due strutture le accompagnano contemporaneamente verso un duplice obiettivo: riscoprire il proprio valore di donna, riappropriandosi della propria storia di vita e sviluppare competenze genitoriali più adeguate a riconoscere i bisogni dei loro figli, così da poter esercitare anche la funzione precipua dell’essere madre che è la protezione”.
Riappropriarsi di un senso di fiducia di sé e di controllo della propria vita è il fine della terapia, “tuttavia il percorso terapeutico è lungo e disorientante”, spiega la psicologa: “lavorare con questi scopi vuol dire innanzi tutto ristrutturare l’idea di sé di un individuo, idee che si formano nei primi anni di vita e che diventano fondanti della personalità di ciascuno, tra queste spesso un’idea di sé come non amabile e indegna di felicità, idee fatalistiche sulla propria vita, senso di inadeguatezza, nonché la tendenza ad aderire in modo acritico al ruolo culturalmente associato al genere femminile. Spesso lo spazio terapeutico diviene il luogo in cui per la per la prima volta si ha la possibilità di esprimere la rabbia, dove si può riconoscere la sua legittimità, senza essere necessariamente giudicate e cominciare in questo modo a riacquisire dignità di sé stesse”.
“La dipendenza dall’altro è la trappola invisibile nella quale sono cadute, la relazione con il partner è desiderata e temuta allo stesso tempo, un’illusoria percezione di controllo le induce a pensare che possano, con il loro comportamento, prevedere (e limitare) le reazioni del partner, che invece poco hanno a che fare con una causalità esterna. - Conclude la Colarizi -. Vite giocate in difesa, senza più la possibilità di sentirsi protagoniste, identità plasmate sulle aspettative del proprio compagno, tentando di assomigliare quanto più possibile ad un’ ideale che non appartiene a loro”.
Sabrina Lupacchini