Coronavirus, un operatore socio-sanitario nel bergamasco: “Qui il contagio è quotidiano, rispettare le regole”
La testimonianza, a titolo personale, di Federico Trebbi, 43 anni, bolognese, operatore socio-sanitario nella Fondazione I.P.S Cardinal Giorgio Gusmini onlus, con sede a Vertova, paesino di 5000 abitanti, in Val Seriana a 10 km da Alzano e Nembro, tra i paesi con il più alto numero di contagi. La struttura accoglie 250 pazienti: anziani, malati terminali, pazienti con gravi patologie cerebrali e malati di Sla
“Bisogna assolutamente avere il massimo rispetto delle indicazioni delle istituzioni. Dobbiamo chiederci: preferiamo che ci si ammali tutti oggi, oppure tornare ad essere consumatori domani? Perché il rischio è che la cosa sia molto più grande di ciò che pensiamo”: l’appello viene da chi sta sperimentando in prima persona l’altissima tensione che si vive nelle strutture sanitarie nella zona a più alta incidenza di coronavirus in Italia, nel bergamasco. All’indomani della decisione del governo italiano di rendere tutto il Paese zona protetta, con l’invito a restare a casa per arginare il contagio, Federico Trebbi, 43 anni, bolognese, operatore socio-sanitario nella Fondazione I.P.S Cardinal Giorgio Gusmini onlus, con sede a Vertova, paesino di 5000 abitanti, in Val Seriana a 10 km da Alzano e Nembro (tra i paesi con il più alto numero di contagi), racconta la durissima situazione nella struttura in cui lavora. Uno dei consiglieri, Ivo Cilesi, 61 anni, è stato tra le prime vittime del coronavirus: era tra i massimi esperti di Alzheimer e aveva inventato la terapia della bambola.
Nella struttura 64 operatori a casa in malattia. La struttura accoglie 250 pazienti: dalle Residenze sanitarie assistite per anziani al reparto hospice che accompagna i malati terminali. Altrettanti sono gli operatori. Trebbi lavora nel reparto per malattie neurovegetative – persone con ictus o gravi patologie celebrali -, altamente specializzato nella Sla e accreditato con il Servizio sanitario nazionale. Gli operatori socio-sanitari si occupano della fase assistenziale che comporta il maggior contatto con il paziente: igiene personale, mobilitazioni, sollevamento dai letti per metterli in carrozzina. Quindi tutte operazioni che comportano una distanza inferiore a quella di sicurezza di un metro e che vanno svolte in due. Al momento sono a casa in malattia 64 operatori.
Per motivi di privacy non è dato sapere se di coronavirus o altro.
“Ma per chi come noi lavora in un contesto così delicato e a rischio – osserva, precisando di parlare a titolo personale -, sarebbe indispensabile saperlo”. Solo il caso di un medico è conclamato.
“Ogni giorno due nostri colleghi devono restare a casa. In questa zona il contagio è quotidiano”.
“Il problema in questo momento non è più il virus, è la gente”, sostiene Trebbi. Lo stress prolungato, “l’ansia necessaria” e la fatica di settimane senza riposi per sostituire i colleghi, ma soprattutto il timore di far ammalare i propri cari – perché persone esposta al rischio – trapelano dalle sue parole. Una comprensibile emotività che chiunque faticherebbe a tenere a bada. Proprio ieri, primo giorno di tregua, ha deciso di trasferirsi in un appartamento da solo, per non rischiare di trasmettere un eventuale contagio ai familiari, tra cui due ragazzi di 7 e 17 anni. In reparto indossano ogni giorno le mascherine chirurgiche e solo da qualche tempo sono state vietate le visite dei parenti. “La nostra struttura ha fatto tutto quello che poteva per seguire alla lettera le indicazioni dell’Istituto superiore della sanità – dice – ma fuori tutti hanno continuato a svolgere la stessa vita di prima, con contatti umani e sociali. Molti non hanno rispettato le regole che avrebbero potuto evitare l’espansione del contagio”.
“Fino a ieri i bar erano pieni fino alle 18, la gente in giro”.
Tanti amici e conoscenti con il coronavirus. Trebbi snocciola storie di amici e conoscenti toccati direttamente dal coronavirus e di sanitari che lavorano in rianimazione nell’ospedale di Bergamo: “Non sono tutti anziani, ci sono anche tanti giovani intubati”. Se il virus si manifesta con una febbre molto lieve il tampone viene effettuato a discrezione della sanità italiana. Il suo timore è che in questo modo “continuiamo ad espandere la malattia”. “Siamo certi – afferma – che
intorno a noi ci sono molti più ammalati di coronavirus di quanti siano ufficialmente dichiarati”.
Un lavoro difficile, quelli degli operatori socio-sanitari, “che non si può interrompere perché altrimenti la gente muore”. Si tratta di pazienti neurovegetativi e Sla, fisicamente immobili e attaccati al respiratore. Va fatta la broncoaspirazione, vanno cambiati perché altrimenti rischiano piaghe da decubito. “E’ un mestiere complicato che non si fa per soldi – spiega – perché guadagni 1100 euro al mese lavorando 38 ore a settimana. Ma hai nelle mani la vita di queste persone. Lo fai per dare sollievo agli altri. Ma oggi con il coronavirus è diventato tutto molto più complicato. Moralmente non me la sento di licenziarmi e riparlarne tra due mesi. Se facessimo tutti così morirebbero più pazienti per altre patologie”.
Le cautele nelle strutture sanitarie. L’unica cosa che si può fare nelle strutture sanitarie, a suo avviso, “è mettersi il più possibile nelle condizioni di lavorare in sicurezza: mascherine chirurgiche, lavarsi le mani, utilizzare la soluzione alcolica ed avere il minor numero di contatti con i pazienti e con gli operatori socio-sanitari, che svolgono sempre il servizio in coppia”. Trebbi chiede, in particolare, “informazioni più chiare possibili”:
“In caso di contagio conclamato ci dovrebbe essere un isolamento totale, anche tramite l’abbigliamento dell’operatore entrato in contatto con il contagiato e mascherine con filtri”.
“Siamo tutti nella stessa barca”. Moralmente e psicologicamente è pesante. La solitudine e l’allontanamento dalle persone care è dolorosa: “Ora cerco solo di fare il mio dovere e lavorare senza pensare troppo”, dice. La sua speranza “è che gli italiani per una volta non facciano gli italiani e rispettino le regole. Perché se non siamo uniti diventiamo una barca destinata ad affondare”.