Brexit senza regole, l’agroalimentare rischia grosso. Il settore potrebbe avere grandi problemi economici, ma anche i consumatori
Gli aspetti sui quali ragionare sono due: l’economia del comparto e i bilanci delle imprese da un lato, la salute dei consumatori dall’altro.
Covid-19 non ha scacciato Brexit. Anzi di più, la particolarmente difficile situazione economica potrebbe peggiorare il futuro delle relazioni tra Unione europea e Regno Unito. Una prospettiva nell’ambito della quale a rischiare moltissimo è non solo il comparto agroalimentare, ma le condizioni alimentari della popolazione.
Presi dalle ambasce della pandemia, ci siamo probabilmente un po’ tutti dimenticati – eccetto gli attenti osservatori dell’agroalimentare -, del destino a medio termine dei negoziati per un’uscita regolata degli inglesi dalla compagine europea. Un evento complesso in termini generali, che per l’agroalimentare rischia di diventare disastroso (almeno per una parte consistente delle produzioni del Vecchio Continente). E, come spesso capita, potrebbero essere proprio le produzioni agroalimentari italiane a pagarne le conseguenze più pesanti.
Ad oggi, in ogni caso, regole condivise non ve ne sono ancora. Minacce e dure prese di posizione invece sì. Coldiretti ha sintetizzato molto bene la prospettiva. La revisione unilaterale decisa da Boris Johnson, a capo del governo britannico, porrebbe le produzioni agroalimentari europee e italiane in particolare senza protezioni normative e quindi facile preda della concorrenza sleale dei prodotti di imitazione realizzati oltreoceano e nei Paesi extracomunitari. Detto in altri termini, se il Regno Unito non riconoscerà la tutela giuridica dei marchi dei prodotti alimentari italiani a indicazioni geografica e di qualità (Dop/Igp), di fatto oltre Manica si creerà un enorme porto franco nel quale tutti potranno dichiarare tutto, senza controlli e senza, appunto, regole da rispettare. Tutti contro tutti, insomma. Una prospettiva che non tranquillizza soprattutto pensando a cosa significa l’agroalimentare.
Gli aspetti sui quali ragionare sono due: l’economia del comparto e i bilanci delle imprese da un lato, la salute dei consumatori dall’altro.
Dire agroalimentare in Italia e in Europa, significa, ormai, indicare qualcosa che non è solo buon mangiare e buon bere. L’agricoltura, la trasformazione industriale e la commercializzazione dei prodotti significano occupazione, controllo del territorio, tutela della salute. In termini strettamente economici, le vendite di prodotti agroalimentari italiani nel regno Unito valgono 3,4 miliardi di euro e pongono la Gran Bretagna al quarto posto tra i partner commerciali del Belpaese nel settore preceduta da Germania, Francia e Stati Uniti. Spiega Coldiretti: “Dopo il vino che complessivamente fattura sul mercato inglese 783 milioni di euro nel 2019 secondo le proiezioni di Coldiretti, spinto dal boom del Prosecco Dop, al secondo posto tra i prodotti agroalimentari italiani più venduti in Gran Bretagna c’è l’ortofrutta trasformata come i derivati del pomodoro con 329 milioni di euro, ma rilevante è anche il ruolo della pasta, dell’olio d’oliva e dei formaggi come Grana Padano e Parmigiano Reggiano”. E’ bene sottolinearlo: non si tratta solo di prelibatezze che tutti ci invidiano, ma di prodotti di aziende che fanno lavorare decine di migliaia di persone. Tutto senza dire della grande diversità tra le regole da rispettare in fatto di salubrità e genuinità delle produzioni (così come del livello di informazioni al consumatore). E una Brexit senza regole significherebbe anche il proliferare di ostacoli amministrativi alle esportazioni, che scatterebbero con il nuovo status di Paese Terzo rispetto all’Unione Europea.
C’è da chiedersi allora a chi converrebbe una situazione come quella appena prospettata. Probabilmente a nessuno. Ma come molto spesso accade, di fronte alla cocciutaggine dei politici, possono soccombere anche gli interessi della popolazioni e dei lavoratori. Non è una bella prospettiva che, tuttavia, può ancora essere scongiurata.