Affido “speciale”, quando una famiglia accoglie un bambino disabile. 11 istruzioni per l'uso
Quaranta bambini con disabilità e 18 con problematiche sanitarie complesse: tante sono le richieste di affido familiare giunte all'associazione comunità Giovanni XXIII nell'ambito del progetto “Portami a casa". Un progetto necessario, 15 storie da raccontare, un metodo da condividere
Un affido “speciale” per ogni bambino con esigenze speciali: è questo l'obiettivo e la sfida del progetto “Portami a casa”, promosso dall'associazione comunità Giovanni XXIII, che ha preso il via nel dicembre 2019 grazie alla sinergia tra l'associazione, il Servizio Minori e Famiglie del Comune di Torino e l’Azienda Ospedaliera Città della Salute e della Scienza del capoluogo piemontese e con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo. L'obiettivo, appunto, è trovare una casa in cui "portare" tutti i bambini con disabilità che, per diverse ragioni, non possono crescere nella propria famiglia: alcuni abbandonati alla nascita, altri mal curati o addirittura maltrattati, altri ancora dolorosamente affidati, dai propri genitori, ai servizi e poi da questi ad un'altra famiglia, perché se ne prendesse cura come i propri genitori non avevano la possibilità di fare.
I numeri raccontano di un bisogno reale, di un'esigenza diffusa: sulla base dei dati forniti dalla regione Piemonte, nel 2020 erano 2.325 complessivamente i minori fuori famiglia, di cui 172 con disabilità certificata. E i numeri del progetto, d'altro canto, parlano di una risposta necessaria e attesa: in appena due anni, solo nel territorio piemontese, 58 prese in carico sono state attivate dall'associazione, su segnalazione dei vari consorzi socio-assistenziali del Piemonte o dell’ospedale, per un totale di 40 bambini con disabilità e 18 bambini con problematiche sanitarie complesse. Da dicembre 2019 a marzo 2022, 19 bambini sono stati accolti in famiglie affidatarie: per tutti questi nuovi affidamenti, la famiglia è stata sostenuta in tutte le fasi prima e dopo l’accoglienza. Alcune di queste storie sono state raccontate, direttamente dalle famiglie affidatarie, nel libro “Portami a casa, storie di straordinaria accoglienza” (Editore Sempre), curato da Caterina Nania, che sarà pubblicato a luglio: un modo per testimoniare come tutti i bambini, anche quelli con gravi disabilità e con un bisogno di cure e di attenzioni straordinario, abbiano il diritto, ma soprattutto la possibilità reale di avere una casa, una famiglia e una vita non solo dignitosa, ma piena e ricca. Perché proprio questo è ciò che il progetto si propone: migliorare la qualità di vita dei bambini disabili gravi, o con problematiche sanitarie complesse, che necessitano di un contesto familiare di vita alternativo a quello d’origine.
Le 11 istruzioni per un affido “speciale”
Ma c'è anche un altro obiettivo, non meno ambizioso, che gli ideatori del progetto si sono dati: elaborare un metodo e indicare una strada. Per questo, è stato elaborato un documento, condiviso dai diversi partner del progetto, con una proposta di procedura operativa sull'affidamento familiare, che sarà diffuso su tutto il territorio piemontese e che vuole essere uno strumento per operatori, famiglie e associazioni che desiderino lavorare al tema dell’affidamento per i bambini con disabilità. In sintesi, sono 11 i passaggi che vengono indicati come fondamentali per un'esperienza di affidamento di bambini con disabilità, che salvaguardi tanto loro quanto le famiglie che li accolgono.
Il servizio sociale, il lavoro di rete, la progettazione
Primo, il servizio sociale è titolare e regista del progetto d'affido: “La titolarità del progetto di affido del minore è del Servizio Sociale competente per il territorio di residenza della famiglia di origine o del luogo in cui è nato il bambino (minori non riconosciuti) – si legge nel documento - Il servizio sociale guida in tutte le fasi il progetto d’affido, lo monitora e svolge un ruolo di regia rispetto a tutti gli altri attori della rete”.
Secondo, il lavoro di rete: “Prima di redigere un progetto di affido il servizio sociale titolare provvede a convocare una riunione multidisciplinare che comprende la presenza attiva dei genitori (fatto salvo diversa disposizione dell’Autorità Giudiziaria) e tutti i soggetti che si occupano della situazione compresi, preferibilmente, i referenti dell’équipe affido di competenza in modo da approfondire gli aspetti e i bisogni sociali, educativi, sanitari e giudiziari. Nel caso di minori con problematiche sanitarie complesse è opportuno organizzare un incontro multidisciplinare con tutti gli operatori sanitari coinvolti sia nel caso in cui il minore è ricoverato in ospedale, sia che viva con la sua famiglia d’origine o in famiglia affidataria, in una Casa Famiglia o in una comunità per minori”.
Terzo, progettazione delle dimissioni dall'ospedale: “Se il progetto d’affido giudiziale o consensuale riguarda un bambino che è temporaneamente ricoverato in ospedale e il cui progetto prevede l’ingresso in famiglia affidataria, di fondamentale importanza è la progettazione delle dimissioni dall’ospedale al domicilio”.
Quarto, un “buon progetto”: in particolare, “nel caso di affidamenti di bambini disabili o con esigenze sanitarie complesse nell’elaborare il progetto bisogna tenere presente la questione relativa alla residenza anagrafica del minore che potrebbe determinare alcune criticità. Nella grande maggioranza degli affidamenti familiari il minore mantiene la residenza presso la famiglia d’origine e acquisisce il domicilio della famiglia affidataria che potrebbe essere ubicata su un territorio diverso e distante. Questa differenziazione comporta il fatto che il bambino in affido usufruirà delle cure sanitarie e del pediatra di riferimento in base al domicilio e che la scelta dello stesso, con l’esenzione ticket, dovrà essere rinnovata ogni anno”.
Le “figure dell'affido”: famiglie, tutori, curatori
Quinto elemento fondamentale è il rapporto tra le due famiglie: “Se durante l’affido il servizio sociale e quello sanitario hanno avuto cura del rapporto che lega le due famiglie del bambino, molto probabilmente tale positiva relazione sarà di sostegno alla famiglia d’origine nel caso di rientro del bambino al termine del progetto di affido. Il lavoro svolto avrà raggiunto l’obiettivo di costruire attorno al nucleo familiare del bambino una rete di relazioni positive a cui attingere in caso di bisogno”.
Sesto, il ruolo del tutore: “Alcuni minori disabili o malati potrebbero trovarsi nella condizione di avere un tutore, che può essere privato o pubblico, un assessore o il responsabile dell’Ente Gestore delle funzioni socio assistenziali del territorio di residenza del minore. In questo caso il tutore pubblico viene supportato in questo delicato compito da uffici appositi con funzionari dedicati ed operatori sociali che seguono il minore e si occupano di tutte le esigenze dei tutelati”.
Settimo, “considerate le complessità in cui si trovano a vivere i minori con disabilità che necessitano di un contesto familiare diverso da quello d’origine, è importante che l’Autorità Giudiziaria predisponga, fin dall’inizio, un provvedimento che sia il più dettagliato possibile”.
Ottavo, il curatore speciale: “ la figura nominata dal Tribunale necessaria per tutelare l’interesse del minore quando sussiste un conflitto di interesse tra lo stesso e i genitori o comunque coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. È una figura sempre presente nei procedimenti di adottabilità, ma che è nominata anche negli altri procedimenti. Il curatore speciale deve valutare il miglior interesse per il minore. confronto tra curatore e affidatari è opportuno in tutti i casi di affidamento familiare, ma è indispensabile nel caso in cui il minore sia affetto da disabilità o con una situazione sanitaria complessa”.
Nono elemento cruciale è la ricerca di famiglie affidatarie: “Considerata la difficoltà nel reperire famiglie adottive o affidatarie per i bambini affetti da disabilità, in alcune realtà territoriali si affida la ricerca alla redazione di appelli che vengono diffusi attraverso internet o attraverso i canali associativi. Non sempre però questi appelli sono redatti seguendo regole condivise”.
Le associazioni , gli appelli, i caregiver
Decimo, il ruolo delle associazioni di famiglie affidatarie: “Nel caso di affidamenti complessi come quelli relativi ai bambini disabili le associazioni possono anche individuare al loro interno delle figure che possano svolgere una funzione di accompagnamento. Tali figure possono occuparsi della gestione della complessità di tutto il processo che parte dalla segnalazione del caso da parte del servizio sociale competente fino all’accoglienza del bambino in famiglia e anche nelle fasi successive al fine di integrare e coordinare le azioni messe in atto dai singoli soggetti che si occupano della situazione socio-sanitaria del bambino”.
Infine, c'è un'altra attività, a cui il peraltro il progetto riserva un'attenzione particolare e che, soprattutto con la pandemia, si è rivelata preziosa e cruciale: la selezione e la formazione di un gruppo di caregiver extrafamiliari non professionali, disponibili ad affiancare le famiglie affidatarie in caso di ricoveri ospedalieri prolungati o a domicilio, in caso di necessità di cura particolarmente gravose. “Il ruolo svolto da questa figura deve essere autorizzato e formalizzato dal servizio sociale territorialmente competente – si legge nel documento - il quale può attivare un affidamento diurno che garantisca la copertura assicurativa necessaria e un rimborso per le spese affrontate. A nostro parere l’affiancamento della figura del caregiver alla famiglia affidataria e al bambino è uno strumento di sostegno fortemente raccomandato per realizzare un affidamento familiare efficace e duraturo nel tempo”. Per questo, attraverso due corsi di formazione, uno nel 2020 e uno nel 2021, sono state formate 55 persone, nella maggior parte dei casi giovani dai 20 ai 30 anni, che sono state poi inserite in una banca dati a cui attingere per attivare un servizio di accompagnamento a domicilio o in ospedale. Come riferiscono i promotori del progetto, “aver potuto contare su persone formate attraverso il progetto nel ruolo di caregivers individuati e incaricati formalmente ha avuto come esito un miglioramento qualitativo nel supporto e nell’assistenza al minore, un incremento di soddisfazione da parte del personale ospedaliero e un’esperienza formativa e arricchente per gli stessi volontari. Si auspica quindi che per il futuro l’utilizzo di caregivers volontari formati possa diventare prassi strutturale e non risorsa occasionale ed emergenziale”.
Chiara Ludovisi