Via dal falso benessere, Geni della letteratura e dell’arte, santi e pellegrini hanno deciso di lasciare ricchezze e piaceri per cercare una nuova vita
La pulsione verso il senso profondo dell’esistenza si fa strada nonostante il muro neo-decadente, tutto estetismo e godimento, della nostra epoca
L’abbandono della sazietà, della fama e del piacere è un elemento vitale, in occidente come in oriente, per comprendere come la pulsione verso il senso profondo dell’esistenza si faccia strada nonostante il muro neo-decadente, tutto estetismo e godimento, della nostra epoca.
Se non vogliamo andare tanto lontano, abbiamo l’esempio di un poeta del Novecento che ha lasciato con i suoi “Frammenti lirici” (1913) una delle testimonianze più alte della crisi dell’uomo alle porte della grande guerra. Un’esplosione a pochi passi da lui in trincea lo costrinse al ricovero in vari ospedali, finché un medico parlò per il suo caso di una strana sindrome: “delirio d’eternità”. Eppure Clemente Rebora veniva da una famiglia rigorosamente mazziniana, assai lontana da miracolismi e superstizioni. Ma durante una conferenza, siamo nel 1928, mentre stava parlando di famiglie cristiane che durante le persecuzioni romane rinunciavano alla clemenza del giudice pur di testimoniare la loro fede, sapendo di andare incontro alla morte, si bloccò. Non riuscì ad andare avanti, ci provò due volte, e poi si alzò e lasciò la sala. Il laicissimo poeta abbandonò tutto, l’amore, la fama, il lavoro, per intraprendere un nuovo cammino che lo porterà nell’ordine dei Rosminiani fino alla fine dei suoi giorni.
Quella manìa d’eternità diagnosticata in Rebora in realtà era ricerca di un senso per una vita che, già ai primi del Novecento, sembrava un meccanismo unicamente materiale fatto di desiderio, soddisfazione, tedio, non senso, attesa della fine. Se ci pensiamo, un meccanismo oliato bene, tanto da spaventare già settecento anni prima un giovane assisiate che scelse di vivere per strada, o presso una cappella diruta, bevendo acqua piovana, cibandosi di frutti selvatici e dismettendo i bellissimi vestiti adatti al suo rango.
Francesco veniva da una famiglia di mercanti, e frequentava la bella gente e le belle ragazze non solo di Assisi. E anche la sua fuga dalla sazietà e da una religione solo esteriore avvenne, come per Rebora, gradualmente, con la compassione verso gli ultimi con la mitezza e gentilezza, così ce lo descrive Bonaventura da Bagnoregio, che lo distinguevano già da prima, quando era ancora in attesa “di conoscere la volontà del Signore”.
Ma se vogliamo andare ancora indietro nel tempo, Benedetto da Norcia, nel quinto secolo, sconvolto dalla decadenza che constatò nella sua permanenza a Roma, se ne andò tra i boschi e le montagne del sublacense, tra le rovine di una antica villa romana, a vivere in solitudine e preghiera. E fondando un nuovo modo di vivere.
Non solo religiosi: il poeta-cardine della nuova lirica d’occidente, Arthur Rimbaud, ancora molto giovane decise di abbandonare l’occidente -e la poesia- per dimenticare e farsi dimenticare. Tornò in Francia solo per i suoi ultimi giorni di vita: aveva solo 37 anni.
Anche Robert Luis Stevenson, dopo aver narrato l’uomo moderno e la sua archetipica lotta tra il bene e il male in “Lo strano caso del dottor Jekyll e il signor Hyde” decise, anche per ragioni di salute, di vivere a Samoa, fino alla fine, divenendo parte integrale di quel popolo e difendendolo dalle prepotenze delle potenze coloniali.
Tolstoj si spense in una stazioncina ferroviaria, in fuga dal benessere, dalle questioni familiari, dal suo vecchio sé e da una cultura e da un’arte che vedeva sempre più lontane dalla verità e dallo spirito.
Uno degli esponenti della nuova poesia del Novecento, Pierre Reverdy, decise di ritirarsi nell’abbazia benedettina di Solesmes, assieme alla moglie che lo accompagnò nel cammino di conversione e redenzione, fino alla morte avvenuta nel 1960.
Sono solo pochi esempi di quanti hanno scelto di andarsene da un benessere fittizio per iniziare un nuovo cammino a contatto con madre natura e i doni di Dio.