Vaia, due anni dopo il bosco reagisce. Ma i lavori forestali procedono a rilento in Altopiano

Due anni fa, tra il 26 e il 30 ottobre 2018, un vento caldo di scirocco a 200 chilometri orari e intensissime piogge devastarono le zone dell’Altopiano, del Bellunese in Veneto, ma anche Friuli Venezia Giulia, Lombardia e il Trentino-Alto Adige. La tempesta Vaia ha abbattuto, come birilli, 14 milioni di alberi. L'esbosco continua ancora oggi rallentato dalla pandemia, poi si potrà pensare al rimboschimento dove sarà fondamentale ripensare alla biodiversità e all'uso di nuovi spazi per il pascolo  

Vaia, due anni dopo il bosco reagisce. Ma i lavori forestali procedono a rilento in Altopiano

«Nel 2020 abbiamo assistito a un anno di pasciona, cioè un’abbondanza di produzione di semi di abete rosso, bianco e faggio. È un fenomeno ciclico che capita ogni otto o dieci anni, la natura ci sorprende con azioni che non sempre prevediamo: è come se il bosco avesse reagito alle ferite della tempesta Vaia con una iperproduzione di nuova vita».

Daniele Zovi, scrittore e divulgatore ed esperto di foreste e di animali selvatici, continua a camminare in quei boschi che conosce da sempre. Nato a Roana, osserva la natura ricucire sé stessa dopo il disastro naturale di due anni fa, quando tra il 26 e il 30 ottobre 2018, un vento caldo di scirocco a 200 chilometri orari e intensissime piogge devastarono le zone dell’Altopiano, del Bellunese in Veneto, ma anche Friuli Venezia Giulia, Lombardia e il Trentino-Alto Adige. Otto persone persero la vita, il Veneto, la regione più colpita, ha stimato danni per oltre un miliardo e 700 milioni di euro, ma soprattutto, nella sua totalità, vennero abbattuti come birilli, 14 milioni di alberi. Un dato mai registrato in Italia in un’area concentrata su una superficie di 40 mila ettari, una perturbazione legata ai cambiamenti climatici di cui non si conoscono precedenti da questo lato delle Alpi, come conferma Zovi che ha passato gli ultimi mesi a ricercare informazioni tra documenti, archivi storici e testimonianze, a partire dall’Ottocento.

Una quantità solo stimata, certo, perché molte aree sono irraggiungibili: «Possiamo dire che abbiamo superato la metà dell’esbosco programmato – spiega Emanuele Munari, sindaco di Gallio e presidente dell’Unione montana spettabile Reggenza dei sette Comuni – Fino a oggi le ditte boschive hanno privilegiato il recupero del legname più “comodo”, quello che rimane prevede un lavoro più difficoltoso, bisogna addentrarsi in tante zone sparse quindi è probabile che si andrà a rilento. Certamente la pandemia ha bloccato tutto, soprattutto il mercato. Un ulteriore danno: i cinesi, tra i maggiori acquirenti del nostro legno, hanno azzerato gli acquisti. Di recente, la Regione ha convocato due tavoli per trovare soluzioni economiche utili ad accelerare gli esboschi e per incentivare i Comuni o i privati a collocare il legno con un prezzo più aggressivo per toglierlo quanto prima dalla montagna».

A metà maggio, il governatore Zaia ha dato il via libera a centinaia di nuovi cantieri per il ripristino delle opere viabilistiche colpite dal maltempo, dando priorità al risarcimento danni a privati e imprese colpiti con un piano d’intervento attorno ai 42 milioni di euro. Alle amministrazioni comunali, per il ripristino dei danni alle infrastrutture pubbliche danneggiate, sono stati assegnati 60 milioni di euro; 15 milioni per la messa in sicurezza delle sorgenti, mentre circa 100 milioni di euro sono riservati all’adeguamento delle opere idrauliche in tutto il territorio del Veneto.
La grande quantità di legname danneggiato ha trovato un sistema non predisposto inizialmente al recupero rapido, così è stato necessario l’intervento di ditte austriache, tedesche, slovene, serbe, finlandesi attrezzate meglio con grandi macchine in grado di entrare nella foresta e di tagliare il tronco in pezzi commerciali direttamente in loco.

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Il lockdown e la chiusura delle frontiere hanno arrestato questo processo, ma secondo Munari luglio 2021 è il mese cerchiato in rosso sul calendario come termine ultimo dei lavori. Un auspicio legato all’incertezza di questo tempo, ma bisogna procedere il più rapidamente possibile anche per la salvaguardia delle piante rimaste in piedi: «Dal punto di vista ecologico – spiega Daniele Zovi – gli alberi a terra marciscono creando biomassa e humus ed è certamente un bene, ma dall’altro, invece, attraggano il bostrico, un piccolo coleottero, la cui femmina depone le uova sottocorteccia e le larve neonate scavano il tronco già sofferente accelerando la fine del suo ciclo vita. Questo esponenziale proliferare, però, porta gli insetti ad attaccare anche le piante rimaste in piedi, una situazione già vissuta durante la prima guerra mondiale i cui bombardamenti avevano raso al suolo quattro quinti di bosco».

Solo a esbosco terminato si potranno attuare i piani di rimboschimento, partendo da un imprescindibile presupposto: va agevolata la biodiversità e il ritorno delle specie autoctone perché nei secoli scorsi l’uomo ha piantato conifere ovunque, a scapito delle latifoglie, e questo ha favorito i danni provocati da Vaia. Il rimboschimento deve prevedere faggi, larici, tigli e ancora frassini, aceri, betulle, allargando anche le radure per incentivare il pascolo in aree come l’Altopiano dove la produzione di formaggio è vista come valore economico riconosciuto e apprezzato: «Negli ultimi 15-20 anni – conclude Emanuele Munari – abbiamo tagliato solo il 30 per cento della ricrescita del bosco che da decenni si espande inesorabilmente. Nell'arco di 40 anni i pascoli si sono via via rimpiccioliti e per questo sarà fondamentale ragionare sull’equilibrio e sulle nuove opportunità. Rispettando sempre i processi naturali».

La scelta (da non ripetere) dell'abete rosso

La scelta dell’abete rosso risale all’Ottocento circa, quando le “scuole” tedesche e francesi scelsero di espandere le coltivazioni di questo albero in tutta Europa, dalla Baviera alla Schwarzwald, passando per le Alpi, l’Austria e la Repubblica Ceca. L’abete rosso è facile da produrre in vivai e quando lo si mette a dimora la percentuale di attecchimento nel suolo è dell’80-90 per cento.

29 ottobre 2020, i numeri di una tragedia senza precedenti

Nella notte del 29 ottobre 2018 qualcosa come 14 milioni di alberi, per lo più abeti rossi, sono caduti come tessere di un enorme domino spinti da venti che hanno toccato i 200 chilometri orari, che hanno spazzato i versanti orientali delle valli di Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige. In una sola notte è stato perso l'equivalente di sette anni di tagli boschivi su tutta la superficie forestale nazionale. Da allora, la gestione dei nostri boschi ha subito un'evoluzione, nonostante le difficoltà a cambiare modello ed affrontare le chiusure imposte da Covid-19. Nel solo Trentino, sono stati aperti 550 cantieri per il recupero del legname schiantato e il ripristino della viabilità forestale. La sfida sarà quella della diversificazione delle specie e delle età delle piante, per rendere il bosco più forte.

Asiago: Fsc e il laboratorio naturale del monte Mosciagh

Il monte Mosciagh rinasce e diventerà un laboratorio a cielo aperto grazie al ripristino delle aree devastate dal vento due anni fa con la messa a dimora di diverse specie autoctone. Il Comune di Asiago, assieme al dipartimento Tesaf dell’Università di Padova, Treedom e Fsc Italia, ha presentato venerdì 16 ottobre la prima fase del progetto sperimentale “Oltre Vaia”: un’area di tre ettari sulla sommità del monte verrà in parte lasciata a evoluzione naturale e in parte destinata alla messa a dimora di circa seimila piantine di abete rosso, larice, pioppo, betulla, faggio, acero e altre specie autoctone. Per proteggere le piante non verranno utilizzati i tradizionali tubi in plastica, ma “ripari” in cartone sostenibile certificato Fsc forniti dalla ditta Redbox. Nella primavera 2021 arriverà invece la seconda fase.

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