Paesaggio urbano. Serve una nuova alleanza ecologica tra uomo e natura
Le città del futuro possono diventare luoghi migliori solo se si imparerà la resilienza, cioè la capacità di imparare dalle criticità. Il 22 settembre appuntamento a Solidaria con Alessandro Melis, curatore del padiglione Italia alla 17a Biennale d'architettura di Venezia.
Alessandro Melis, curatore del Padiglione Italia alla 17a Biennale di Architettura di Venezia, spostata all’anno prossimo a causa della pandemia, dentro a Solidaria sarà l’ospite d’onore dell’incontro in programma la sera del 22 in sala Zairo di piazza Salvemini 20 dal titolo “In quale paesaggio urbano vivere”.
Melis potrebbe essere definito un visionario, se non fosse che la sua idea di architettura e città si tiene saldamente ancorata dentro la biologia e, quindi, dentro le regole che ci determinano almeno dal punto di vista fisico. «Mi serve la biologia – spiega il professor Melis – per costruire una prospettiva perché per progettare occorre la transdisciplinarietà che ci consente di costruire delle idee sul futuro della città che siano resilienti, cioè che ci consentano un adattamento dal punto di vista strategico».
Il Covid19 ci ha messo di fronte a una crisi globale che coinvolge ogni aspetto del nostro vivere: «Questa è una “tempesta perfetta” ma non dobbiamo dare troppa enfasi a questa crisi per la riorganizzazione della città, perché la prossima crisi potrebbe manifestarsi in modo totalmente diverso. Sono state proposte strade più larghe, case e appartamenti più grandi, ma questa visione risponde ai sintomi perché la maggiore espansione urbanistica è la causa dello spillover, ovvero il salto di specie che ha diffuso il virus. Il Covid è uno dei tanti fenomeni di feedback possibili: i cambiamenti climatici potrebbero diffondere il West Nile virus, oppure la febbre Dengue, oltre a causare anche i fenomeni estremi come tempeste e inondazioni che stanno diventando sempre più frequenti. Occorre capire che sia la tempesta Vaia che il Covid sono fenomeni collegati e quindi occorre lavorare sul piano delle strategie delle città».
«Non è possibile disegnare alcuno scenario per la città del futuro – continua Melis – perché in questi ultimi 10 mila anni ogni scenario ipotizzato in modo deterministico non ha funzionato. Resiliente non può essere deterministico e ce lo dice la biologia dell’evoluzione: la natura produce forme e opportunità per quando le condizioni non sono prevedibili. Il panda è l’unico orside con sei dita perché si è trovato in un contesto ambientale particolare, costretto a vivere di bambù e il sesto dito gli dà la possibilità di essere molto agile. Il 60 per cento dei componenti del dna è “inutile” o è una ripetizione e questo significa che la natura produce forme ridondanti per prevedere l’imprevedibile. Crea opportunità, la selezione naturale si basa su questo».
Nasce da qui la necessità di progettare una nuova forma di alleanza fra umanità e natura in chiave ecologica, cioè la necessità di reinterpretare sia la rigenerazione che la nuova costruzione: «Il 50 per cento della popolazione mondiale vive in contesti urbani frutto della cooptazione funzionale, non della progettazione, eppure il progetto è fallimentare: il 30 per cento delle emissioni di Co2 dipende dalle costruzioni, dall’utilizzo degli edifici, dalla città progettata. Non siamo in grado di calcolare l’impatto negativo delle città: i trasporti causano il 33 per cento delle emissioni e l’impatto dipende molto da come è costruita la città. Los Angeles è molto più impattante di Amsterdam che risulta più resiliente perché offre numerose opzioni di trasporto. La domanda è: quanto possono migliorare le nostre città estendendo il concetto di variabilità, di ridondanza di relazioni, anche alle modalità di progettazione? Il modo in cui progettiamo gli edifici è la prima causa della crisi ambientale che stiamo vivendo e che per la prima volta porta l’umanità a una seria minaccia».
Resiliente, quindi, appare come la chiave necessaria per progettare la città del futuro: « La resilienza si basa sulla molteplicità delle opzioni – conclude Melis – e questo consente di controllare la degenerazione. Talvolta vengo accusato di fare l’apologia della città informale, quella città che nella forma più degradata è rappresentata dagli slum. Non è così perché le conseguenze negative vissute dalla città informale dipendono da quella formale e vengono subite perché non possono essere mitigate».