Un’onda vulcanica. La formazione dei cosiddetti "meteotsunami", diversi da quelli classici di origine tettonica
Quando e perché le onde di pressione dei vulcani interagiscono con le onde dell'oceano? E quanto potenti, e potenzialmente distruttivi, potrebbero diventare questi tsunami?
Di solito, associamo la formazione di uno tsunami al verificarsi di un terremoto nei fondali marini. Ma questa non è l’unica origine possibile per questi devastanti fenomeni.
Agosto 1883: sull’isola indonesiana chiamata Krakatau (o Krakatoa), di fatto costituita dalla sommità emersa di un vulcano, all’improvviso si verifica una serie di forti eruzioni che culmina in una devastante esplosione (detriti lanciati a 80 km di altezza, con un’area di circa 800.000 kmq ricoperta di cenere corrosiva). Gran parte dell’isola si disintegrò e collassò in mare; contemporaneamente, si sollevò uno tsunami che si abbatté sulle vicine isole di Java e Sumatra, causando quasi 36.000 vittime.
Ma gli effetti dell’evento andarono oltre. Anche se la maggior parte dei danni furono in Indonesia, l’eruzione del Krakatoa generò – per un qualche meccanismo – piccoli tsunami che raggiunsero le coste di Paesi che si affacciavano sia sull’Oceano Pacifico che sull’Oceano Atlantico. Ciò stupì grandemente gli studiosi di allora, poiché non sembrava proprio esserci modo per lo tsunami del Krakatoa di saltare dall’Oceano Indiano oltre i continenti per raggiungere altri bacini oceanici. Di conseguenza, in assenza di altre possibili spiegazioni, la causa di quegli tsunami lontani fu ascritta a terremoti coincidenti.
Nei decenni successivi, tuttavia, i geofisici hanno continuato a interrogarsi sui dati. Nel 1955, per esempio, uno studio correlò la formazione di quegli tsunami lontani all’arrivo dell’onda di pressione (un’onda di pressione la cui frequenza è nel campo delle onde percepibili dall’orecchio umano è conosciuta come “suono”) prodotta dall’eruzione che si propagava nell’aria; in pratica, si ipotizzò l’instaurarsi un qualche tipo di accoppiamento tra questa perturbazione atmosferica e l’acqua. In effetti, in tempi recenti (2003), simulazioni al computer hanno ulteriormente supportato questa ipotesi, mostrando come lo tsunami principale del Krakatoa, anche quando si è fatto strada attraverso le separazioni tra i continenti per raggiungere sia l’Oceano Pacifico sia quello Atlantico, sia rimasto indietro rispetto a piccoli tsunami in luoghi come le Hawaii, la California e l’Alaska, che invece erano sincronizzati con la più rapida onda di pressione dell’esplosione. Tuttavia, agli scienziati occorreva una conferma definitiva.
Pochi mesi fa, il 15 gennaio 2022, nel Pacifico meridionale, una caldera vulcanica in gran parte sommersa, chiamata Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, ha emesso un “ruggito” terrificante, producendo un fungo di cenere e uno tsunami locale che hanno devastato l’arcipelago del Regno di Tonga (fortunatamente, causando poche vittime). Si è trattato di un’eruzione vulcanica da record: i detriti sono stati proiettati fino a due terzi della distanza che separa la Terra dallo spazio, mentre la sua nube di cenere ha generato fino a 200.000 scariche di fulmini all’ora, con un’esplosione tra le più potenti mai registrate. Insomma, in termini di scala ed energia dell’esplosione, una sorta di “Krakatoa 2”, i cui rumori sono stati uditi fino a 9600 km di distanza! Ebbene, rumore a parte, anche in questo caso una serie di piccoli tsunami (alti decine di centimetri), si sono riversati su coste lontane in bacini oceanici disparati. “Non ci aspettavamo quel segnale di tsunami nei Caraibi”, ha commentato Paul Fanelli, oceanografo della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA).
E quando gli studiosi hanno provato ad abbinare gli strumenti di misurazione dell’altezza delle onde in tutto il pianeta ai corrispondenti sensori di pressione dell’aria, è apparso chiaro che l’onda di pressione dell’esplosione deve aver trovato una connessione con le superfici di più oceani e mari, trasferendo energia all’acqua e producendo una miriade di tsunami. Mistero risolto, dunque? Non del tutto, perché, si sa… ogni nuova conoscenza scientifica conquistata genera nuovi interrogativi.
Quando e perché le onde di pressione dei vulcani interagiscono con le onde dell’oceano? Perché i lontani tsunami di Tonga sono comparsi solo lungo certe coste? E quanto potenti, e potenzialmente distruttivi, potrebbero diventare questi tsunami?
Rispetto ai “cugini” derivanti da terremoti, gli tsunami vulcanici sono più complessi. Anche i movimenti eruttivi possono spostare grandi masse d’acqua direttamente. Ma nel caso di Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, ciò non spiegherebbe come mai, quasi tre ore prima che quel grande tsunami attraversasse l’Oceano Pacifico e raggiungesse il Giappone, piccoli picchi d’onda sono arrivati alle isole Ogasawara, circa 1000 km a sud di Tokyo, oltre a picchi simili apparsi nel Mar dei Caraibi, da Porto Rico al Messico, e persino nel Mar Mediterraneo, a 18.000 km di distanza dall’eruzione! Perciò gli scienziati hanno rivolto la loro attenzione ad un modo meno “convenzionale” in cui la Terra può generare tsunami: usando l’atmosfera.
A scoprire questa possibilità, nel 1929, fu il matematico e oceanografo britannico Joseph di Proudman, il quale ipotizzò che, se si muove a una certa velocità sopra un bacino idrico, una perturbazione (ad esempio, una tempesta) può dare il via a qualcosa che da allora venne chiamata appunto “risonanza di Proudman”. Le sue equazioni hanno dimostrato che l’onda di pressione atmosferica può trasferire energia alle onde nell’acqua, ingigantendole. E quando queste onde amplificate si abbattono sulla costa, si parla di “meteotsunami”. Inoltre, Proudman ha dimostrato che il trasferimento di energia dal cielo al mare è più efficiente quando una perturbazione atmosferica viaggia alla stessa velocità delle onde marine (che dipende dalla profondità dell’acqua). In effetti, le tempeste tendono a produrre onde di pressione atmosferica che viaggiano decine di centimetri al secondo e, a quella bassa velocità, le onde di pressione entrano in risonanza con onde marine altrettanto lente, che percorrono bacini d’acqua poco profondi fino a innescare grandi meteotsunami.
Sicuramente, per gli studiosi sarà necessario approfondire queste nuove acquisizioni, anche per prevenire eventuali fenomeni di dimensioni tali da causare danni catastrofici a livello planetario.