Un antico monito. Davos non è nuovo a confronti radicali e fondamentali nella storia e cultura d’occidente
Davos è stata al centro di eventi storici e culturali che hanno cambiato il mondo e che dovrebbero aiutarci a gestire il futuro del pianeta.
Davos è il luogo degli incontri, quelli che almeno dovrebbero esserlo realmente. E che qualcuno, che rappresenta il domani, come Greta Thunberg, vorrebbe fosse anche il luogo della coerenza e delle promesse mantenute. Anche quando è remoto, nel senso non solo di distante, lassù a quasi milleseicento metri di altezza, ma di forzata resa al web, visto che il Covid ha sconsigliato non solo abbracci e strette di mano, ma proprio la presenza pura e semplice.
E così Putin, Merkel, von der Leyen, Macron ed altri – non noi, ancora una volta, perché nel Belpaese la crisi è anche politica – hanno parlato di equa distribuzione dei vaccini, delle diseguaglianze non solo sociali, ma anche climatiche, di bio-difesa. Ma chi conosce la storia sa che senza un impegno davvero serio il mondo rischia molto, e a rimetterci sarebbe soprattutto il povero, l’indifeso, il malato. Anche perchè Davos non è nuovo a confronti radicali e fondamentali nella storia – e cultura – d’occidente.
Intanto vi si svolge un enigmatico romanzo scritto da Thomas Mann nel 1924. La Davos della “Montagna incantata” di uno scrittore che era riuscito ad allontanarsi delle tentazioni irrazionali è il luogo della cura. Non solo dell’anima, ma anche del corpo, perché il racconto si svolge in un sanatorio dove è ricoverato il cugino, memoria del reale soggiorno in quello stesso luogo della moglie di Mann. Ma anima e corpo sono intimamente legati, ed ecco che, costretto anche lui a rimanervi, inizia per il protagonista un cammino che lo farà penetrare nello spirito del tempo, dall’irrazionalismo decadente al cogito cartesiano, dallo spiritismo all’amore, fino alla guarigione.
Una volta sceso da quella sorta di contraddittorio – perché umano – Eden, ecco che il giovane diventa un soldato ad un passo dalla morte, perché nel frattempo è iniziata la grande guerra. Mancanza di lieto fine? Sembrerebbe, se non fosse per quelle parole messe a sigillo di una delle più ermetiche (per ammissione dello stesso Mann) opere del Novecento: “Chissà se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?”.
Davos come luogo della purificazione e nello stesso tempo della preparazione al combattimento, dove si incontrano e scontrano i due princìpi dell’uomo, la temperanza e la forza. Nel sanatorio di Mann erano l’illuminista Settembrini e il decadente Naphta a sfidarsi: nella reale Davos del 1929 (si faccia attenzione alle date) in un convegno si scontrarono due tra i massimi pensatori dell’epoca, Ernest Cassirer e Martin Heidegger, destinati a rappresentare due realtà ideologiche, storiche e politiche radicalmente diverse: il primo lasciò la Germania con l’avvento del nazismo, accettato e giustificato dal secondo.
Ma sia la Davos di Mann, sia quella dei due filosofi tedeschi hanno qualcosa in comune: la preparazione di un’altra guerra che aveva radici in quella spietata punizione alla Germania alla pace di Versailles: una punizione che avrebbe affamato la popolazione e che alimentò un terribile risentimento alla base della presa del potere di Hitler e di un’altra carneficina mondiale.
Per questo Davos dovrebbe significare non solo dichiarazioni, ma significativi atti pratici, perché la gente, la storia ce lo insegna, ad un certo punto rifiuta di dare spazio alle parole, quando fame e dolore sono alle porte. E talvolta dentro.