Un Paese fermo. È da molti anni che l’Italia non fa crescere la propria ricchezza collettiva
Quanto può resistere l’Italia senza una qualsivoglia politica industriale che cerchi di invertire la rotta?
Numericamente parlando, siamo con i piedi dentro la recessione, la seconda nel corso dell’ultimo decennio. Non c’è un dato che dica il contrario: il prodotto interno lordo è inchiodato allo zero virgola niente, e questo già è meno di quanto previsto dal Governo (un misero 0,6%) e allargherà il divario tra deficit e pil; la produzione industriale è in picchiata (-1,3%) ma soprattutto in picchiata sono gli investimenti che fertilizzano la produzione industriale. Un dato su tutti: le domande di credito da parte delle imprese alle banche si sono ridotte del 3,4% in un solo anno. E il trend si è fatto preoccupante nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, quando il Pil italiano è andato addirittura in territorio negativo (-0,2%).
Stiamo pagando soprattutto l’inazione governativa nelle politiche industriali, che dura da un paio d’anni almeno. È un’affermazione tecnica, non politica, corroborata da un dato che dice tutto: l’Italia è l’unico Paese occidentale che è fermo, gli altri più o meno crescono tutti. Quindi è un problema tutto italiano, in un Paese che ha visto esplodere molte crisi industriali, nessuna delle quali (Alitalia, Ilva, Whirpool, Carige e Popolare Bari…) minimamente risolta.
Ma l’inazione ha radici più profonde. È da molti anni che l’Italia non fa crescere la propria ricchezza collettiva, mentre gli Stati Uniti, la Germania, la Gran Bretagna, la Francia crescevano e si sviluppavano. Ci tiene in piedi un export trainato da aziende dislocate in una decina o poco più di province italiane, ma a livelli non sufficienti rispetto alla spesa pubblica. Questo impedisce la creazione di nuovi posti di lavoro, all’alba di un periodo storico in cui la distruzione dei vecchi appare irreversibile. Per dire, le auto elettriche avranno bisogno di un quarto della manodopera attualmente impiegata nelle fabbriche; le banche stanno sfoltendo gli organici in maniera drastica; l’automazione e la digitalizzazione spingono gli operai fuori dalle catene di lavoro, gli impiegati fuori dagli uffici.
Quanto può resistere l’Italia senza una qualsivoglia politica industriale che cerchi di invertire la rotta? Perché la situazione attuale non racconta di politiche sbagliate o discutibili, ma proprio di assenza di un minimo di cornice intorno al quadro economico. Non abbiamo soldi da investire in una qualsiasi direzione (taglio delle tasse, investimenti pubblici, stimoli all’economia o all’occupazione…); non abbiamo affrontato nessuno dei nodi che avviluppano la crescita (burocrazia, inefficienza del pubblico impiego, giustizia civile, evasione fiscale, sperequazioni territoriali…); non abbiamo creato condizioni interessanti per le aziende straniere che vogliano investire qui. Non abbiamo ridotto i nostri debiti, anzi!
Ci limitiamo a osservare, e a sbolognare la patata bollente al prossimo esecutivo. Nel frattempo ci stupiamo che i ragazzi cerchino fortuna all’estero, e che le famiglie non facciano più figli. Come se fossero condizioni frutto di congiunzioni astrali e non di un immobilismo che reclama classi dirigenti di ben altro spessore. E questi bonsai non proteggeranno dai venti di tempesta che, minacciosi, si stanno affacciando all’orizzonte.