Testimonianze in carne e ossa. Mendel, Osvaldo, François- Louis e Pasqualina: il loro ricordo corre oggi sui social
Tante sono state le persone che hanno messo a repentaglio la loro vita per difendere e aiutare uomini, donne e bambini vittime della persecuzione nazifascista.
Sorride, Roszka Grossman, mentre gioca con il gattino di poche settimane che le si è arrampicato sulla spalla. Sa bene che è proibito tenere animali domestici in casa, ma a quel micio col musetto bianco lei si è affezionata. E lui a lei.
Autore di quell’istantanea di serenità familiare in bianco e nero – pubblicata ora su Fb dallo Yad Vashem di Gerusalemme – è il fratello di Roszka, Mendel. Di mestiere fa il fotografo e vive in Polonia, a Łódź. Quando, nel 1939, le SS occupano la città e creano il ghetto, anche Mendel con la sua famiglia vengono internati. Il ghetto si trovava nella zona più industrializzata ma anche più malsana della città: l’acqua era razionata, non esisteva una rete fognaria e neppure il riscaldamento. Il ghetto di Łódź è il secondo per grandezza tra i ghetti nazisti istituiti dal Terzo Reich in Polonia, dopo quello di Varsavia: 4 chilometri quadrati circondati da filo spinato sorvegliato dalle SS, dove vengono costretti a vivere oltre 200mila ebrei (molti dei quali portati da altre città). Sapendo che era fotografo, Mendel viene costretto a fotografare la vita nel ghetto. Lo “Judenrat” (Consiglio ebraico nel dipartimento di statistica), che era un’autorità sottoposta e controllata dai tedeschi, era infatti convinto che se fossero state diffuse immagini dell’impegno degli ebrei nel lavoro – anche 12 ore al giorno per fabbricare uniformi e materassi per la Wehrmacht – i nazisti li avrebbero trattati meglio. Dal 1940 al 1945, Mendel Grossman riprende le disperate condizioni di vita degli ebrei nei ghetto: fotografa le esecuzioni sommarie, i treni stipati di persone dirette al campo di sterminio di Chelmno, i bambini sui carri destinati, insieme agli anziani, ai campi di concentramento, le donne che morivano di fame e di stenti ai bordi delle strade. Negli anni di prigionia, Mendel fotografa anche la sua famiglia, i suoi genitori, le due sorelle e il nipotino Yankush. Li immortala mentre sono in attesa in interminabili code per ricevere la razione di cibo e mentre mangiano sotto le coperte, per proteggersi dal freddo pungente. Con la sua macchina fotografica ne racconta anche i rari momenti di gioia e spensieratezza, come quello di Roszka con il suo gattino. Immortala sulla pellicola la sua famiglia anche quando, con il peggiorare della situazione nel ghetto, iniziano ad uno ad uno a morire per la fame, il freddo e la fatica.
Nel 1944, quando – in seguito all’avanzata dell’Armata Rossa – il destino dei nazisti è segnato, i tedeschi tentano di cancellare tutte le tracce e le testimonianze dei loro crimini. Mendel, insieme agli altri ebrei del ghetto di Łódź, viene trasferito verso i campi di sterminio. Prevedendo quello che sarebbe successo, Mendel nasconde oltre 10mila negativi in barattoli, chiusi in una scatola messa al sicuro sotto il davanzale della finestra di casa. Deportato nel campo di lavoro a Königs Wuterhausen, Mendel Grossman vi rimane fino al 16 aprile 1945, quando viene ucciso dai nazisti – a soli 32 anni – durante una marcia forzata della morte.
Finita la guerra, i negativi di Mendel vengono ritrovati dalla sorella Fajge, che sopravvive all’olocausto insieme a Roszka. Centinaia di foto di Mendel Grossman sono oggi custodite negli archivi fotografici dello Yad Washem e sono consultabili online (https://bit.ly/3mr3xYB).
Osvaldo Salico (1910-1996) è stato medico condotto a Saint-Vincent, Emarése e Montjovet (Valle d’Aosta) dal 1943 al 1975. Nel 1942 viene richiamato alle armi come ufficiale medico e viene inviato in Russia, in un ospedale nell’ansa del Don, con l’incarico di addetto al servizio di radiologia. Quando l’ospedale viene bombardato, Salico viene rimandato in Italia, da dove viene fatto ripartire alla volta del fronte dell’allora Jugoslavia, sempre a capo di due unità radiologiche mobili. Il 24 agosto 1944 è tra i 64 ostaggi di Saint-Vincent, che il comando nazista minaccia di uccidere come rappresaglia per un prelevamento di armi compiuto dal un gruppo di partigiani locali.
François- Louis Alliod (1866-1893) viene ordinato sacerdote nel 1891. Viceparroco di Gressoney-Saint-Jean, d’Emarèse, Saint-Vincent e di Aosta, dal 1896 al 1950 è parroco di Saint-Vincent. Nel 1940 viene nominato canonico onorario della cattedrale. Dopo aver attraversato il dramma della Grande Guerra, mons. Alliod è ancora una volta al fianco dei più deboli quando scoppia il secondo conflitto mondiale. Non è un segreto che avesse antipatia per il fascismo e per Mussolini; le cronache orali ricordano che quando il Duce passò per la valle d’Aosta egli ebbe a dire – in patois – dal pulpito: “…passa Mussolini ma ricordate che egli non è il Padreterno!”. E per questa dichiarazione – così come per diverse altre – subisce molte persecuzioni e torture da parte dei soldati tedeschi. Nell’agosto del 1944 viene arrestato dai nazifascisti, perché sospettato di essere collaboratore dei partigiani, attivi nella zona di Saint-Vincent.
A Osvaldo Salico così come di mons. François- Louis Alliod ha dedicato recentemente la sua attenzione – anche su Fb – il settimanale diocesano di Aosta, “Il Corriere della Valle”. A fine settembre, infatti, lo Yad Vashem, accogliendo la richiesta presentata dallo storico Pier-Giorgio Crétier, li ha nominati “Giusti tra le Nazioni”, ovvero li ha inseriti nell’elenco di persone che rischiarono la propria vita senza alcun tornaconto personale per salvare cittadini ebrei da morte sicura, durante la seconda guerra mondiale.
E molti sono gli ebrei che ha salvato Pasqualina Perrella, una delle “ragazze dell’anagrafe” del Comune di San Donato Val di Comino (piccolo centro della provincia di Frosinone), protagoniste della falsificazione di documenti per mettere in salvo gli ebrei internati nel paese durante l’occupazione nazista.
“Con la morte il 25 ottobre scorso di Pasqualina Perrella, all’età di 99 anni, si è spenta l’ultima delle cosiddette ragazze dell’anagrafe, testimone di quell’orrore della Shoah che colpì anche il Lazio – ha scritto Visit San Donato Val di Comino sulla sua pagina Fb –. Tra il 1940 e il 1944, a San Donato Val di Comino, al confine con l’Abruzzo, vennero confinati alcuni ebrei. Tra loro c’erano anche Margaret Bloch, l’ex compagna di Franz Kafka, che diventò pure vicina di casa dei Perrella, e l’attrice del cinema muto Grete Berger. Il podestà Gaetano Marini e cinque dipendenti comunali, di cui quattro donne tra le quali appunto Pasqualina, falsificarono i documenti d’identità degli ebrei internati, cercando così di evitare che finissero nei campi di sterminio. Un gesto che rischiò di costare la vita all’allora giovanissima Perrella, che il 6 aprile 1944, scoperti i falsi, venne prelevata dai tedeschi e interrogata”. In quell’occasione Pasqualina venne riconosciuta come una delle artefici delle falsificazioni e venne condotta dai soldati tedeschi al camion dove erano stati stipati gli ebrei arrestati. La giovane, che all’epoca aveva appena 22 anni, riuscì fortunosamente a salvarsi dalla deportazione ad Auschwitz perché sul camion non c’era più posto.
Mendel, Osvaldo, François- Louis e Pasqualina: il loro ricordo corre oggi sui social. Tante sono state le persone che – come loro – hanno messo a repentaglio la loro vita per difendere e aiutare uomini, donne e bambini vittime della persecuzione nazifascista. Testimonianze concrete le loro, in carne ed ossa, che vanno ben oltre le “immagini ad effetto” che vengono usate – anche sui social – per abbellire le “vetrine”. Testimonianze le loro, che dovremmo impegnarci di più a riscoprire ed approfondire.