Tensioni in Ecuador, la mediazione dei vescovi svelenisce il clima
Sembra rasserenarsi la situazione in Ecuador, alle prese da giorni con manifestazioni di protesta che hanno causato anche la morte di tre persone. La giornata di ieri, iniziata con uno sciopero generale e con la prospettiva che le proteste in tutto il Paese contro il Governo di Lenín Moreno potessero sfociare in scontri ancora più gravi di quelli dei giorni precedenti, è trascorsa in un clima un po’ più tranquillo. Anche per l'intervento della Chiesa che si è resa disponibile a facilitare il dialogo tra esecutivo e i rappresentanti sindacali e indigeni
Si erano detti disponibili a facilitare il dialogo tra il Governo ecuadoriano una parte e i rappresentanti sindacali e indigeni dall’altra. E così è stato. I vescovi, in costante contatto (anche se non “ufficiale” e riconosciuto) tra le parti in causa, un primo risultato l’hanno ottenuto, insieme all’ufficio Onu di Quito e a 4 Università: quello di svelenire un clima che in Ecuador si stava facendo molto preoccupante (e resta comunque di alta tensione), tanto da far avanzare l’ipotesi che qualche settore politico del Paese puntasse addirittura a un colpo di Stato.
Una prima mediazione. Invece, la giornata di ieri, iniziata con uno sciopero generale e con la prospettiva che le manifestazioni in tutto il Paese contro il Governo di Lenín Moreno potessero sfociare in scontri ancora più gravi di quelli dei giorni precedenti, che avevano causato anche alcune vittime (almeno tre), è trascorsa in un clima un po’ più tranquillo. La prima, preliminare mediazione ha infatti ottenuto due risultati, come spiega al Sir l’arcivescovo di Quito e primate dell’Ecuador, mons. Alfredo José Espinoza, contattato dopo 24 ore quasi filate di trattative: “Anche se la situazione resta difficile, l’atteggiamento degli indigeni, che da giorni protestano nella capitale, si è un po’ ammorbidito ed è stato garantito che le manifestazioni si svolgessero pacificamente. Oltre a questo, sia gli indigeni che i rappresentanti dei lavoratori hanno espresso pubblicamente la propria condanna e la propria estraneità rispetto agli atti violenti che si sono verificati in questi giorni”.
Paese bloccato da una settimana. Vale la pena di ripercorrere quanto è accaduto nell’ultima settimana. A “incendiare” l’Ecuador sono stati alcuni provvedimenti del Governo, e in particolare la scelta di liberalizzare il prezzo dei due tipi di carburante su tre che ancora erano bloccati grazie alle sovvenzioni governative. Ma il paquetazo del Governo prevedeva anche altri provvedimenti di matrice neoliberista, come la riduzione delle ferie annuali da 30 a 15 giorni; il trattenimento della paga di un giorno di lavoro dei dipendenti pubblici, a beneficio delle casse dello Stato; la riforma del codice del lavoro. Una serie di scelte contenute nell’accordo siglato da Moreno con il Fondo monetario internazionale. Il tutto in un clima di contrapposizione tra chi, nel Paese, sostiene l’azione di Moreno e chi ha nostalgia dell’ex presidente Rafael Correa, uno dei leader del decennio “rosso” sudamericano, peraltro inizialmente sponsor di Moreno alla successione, prima di trasformarsi nel suo acerrimo nemico e di guidare l’opposizione dall’estero (anche per evitare un possibile arresto). Secondo i “nostalgici”, Moreno sta vendendo il Paese al Fondo monetario. Secondo i filogovernativi, l’accordo era obbligato, per saldare il debito con la Cina precedentemente contratto proprio da Correa, accusato a sua volta di essersi legato mani e piedi al colosso asiatico.
L’ombra di Correa. Fatto sta che i provvedimenti hanno causato immediati scioperi nel settore dei trasporti, con blocchi stradali. Nonostante il Governo del presidente Lenín Moreno abbia decretato lo stato d’emergenza per sessanta giorni, le manifestazioni si sono susseguite e hanno coinvolto le comunità indigene, alcune delle quali sono scese nelle città, manifestando a Quito e a Cuenca. Il presidente, per ragioni di sicurezza, si è spostato a Guayaquil, dove ieri si è tenuta una manifestazione filogovernativa. Nella capitale, martedì, un gruppo di manifestanti ha cercato di occupare il Parlamento e in seguito a questo fatto il presidente ha dichiarato il coprifuoco.
Commenta da Quito il missionario fidei donum don Giuliano Vallotto, originario della diocesi di Treviso: “La discesa degli indigeni evoca nella memoria storica dell’Ecuador momenti di enorme tensione sociale che alcune volte è sbocciata nella destituzione del presidente. Il giornale più diffuso (El Comercio) aveva scritto un articolo in cui si denunciava la regia esterna dell’ex presidente Correa e di Maduro. Una cosa che non sta in piedi, perché sia il settore dei trasporti che gli indigeni erano acerrimi nemici di Correa”.
Il ruolo decisivo della Chiesa. Anche per l’arcivescovo di Quito sono da evitare queste “dietrologie”: “Se devo dare un’opinione personale – afferma – non credo che dietro agli atti di violenza ci siano le associazioni indigene, le quali, nei contatti che abbiamo avuto, hanno preso le distanze da qualsiasi atto violento, che è invece riconducibile a gruppi politici facilmente identificabili (cioè vicini a Correa, ndr).
Come Chiesa siamo intervenuti non per entrare nelle scelte politiche, ma con atteggiamento umanitario.
Abbiamo ricevuto una richiesta informale, non ufficiale, per facilitare il dialogo. Anch’io personalmente ho avuto lunghi colloqui con le parti in causa, che a un certo momento si sono incontrate. È stato un dialogo, franco, anche duro, ma positivo, che ha portato a un primo accordo minimo. Devo ringraziare anche l’Università Politecnica Salesiana e la Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador, che si sono adoperate anche per assistere gli indigeni accampati nel parque Arbolito, mettendo anche a disposizione alcuni loro ambienti”.
Certo, finora una vera e propria trattativa non è iniziata, e al momento solo le organizzazioni indigene sembrano orientate a sedersi al tavolo, ma la Conferenza episcopale ecuadoriana, in un comunicato diffuso nella nottata italiana si è detta “fiduciosa” che un tavolo di negoziati, propiziato da Onu e Università, possa partire. Anche mons. Espinoza si dice fiducioso: “Si tratta di fare un passo alla volta.
Già oggi il clima è migliore rispetto agli ultimi giorni, quando il Paese si è fermato.
Anche noi abbiamo dovuto chiudere gli uffici della Curia. Credo sia importante che gli indigeni e i sindacati si siano impegnati a manifestare pacificamente”. Ad aiutare, “il fatto che storicamente la Chiesa è vicina e aiuta i popoli indigeni”. Mons. Espinoza non entra nel merito delle scelte politiche, “ma come organizzazioni ecclesiali e come vescovi abbiamo sempre avuto un criterio chiaro, ribadito in questi giorni anche dai gesuiti e dalla Conferenza dei religiosi: “I provvedimenti non devono pesare sulle classi più povere”.