Svetlana, il lavoro di cura e “il diritto a non farsi male”
Diciassette anni fa ha lasciato la Moldavia per trasferirsi a Trento, dove lavora come badante. L'ultima esperienza è stata drammatica: “Per sei anni ho sollevato una donna non autosufficiente di 94 anni e mi sono infortunata più volte: quando ho fatto venire la dottoressa di famiglia per ottenere ausili e infermiera, mi hanno licenziata. Ora ho gravi danni alla spalla e dovrò operarmi. Dobbiamo denunciare”
Svetlana ha 58 anni e da 17 vive e lavora in Italia: è arrivata dalla Moldavia perché “dopo la fine dell'Urss, dal mio paese siamo partiti in tanti, come rondini, per trovare un lavoro e qualcosa con cui vivere. Ho lasciato la famiglia e sono andata via, senza sapere cosa avrei trovato, senza conoscere nessuno in Italia”: è la storia di tante donne, quella di Svetlana, che nel nostro Paese si prendono cura dei nostri anziani non autosufficienti e lo fanno spesso in condizioni difficili. O addirittura “disumane”, come quella che ha denunciato lei, qualche settimana, alla Guardia di Finanza, dopo che è stata mandata via, “senza preavviso e senza ragione”, dalla casa in cui lavorava. Poco dopo un infortunio, dopo che “ho rovinato la mia salute”, è stata messa alla porta da persone “che non hanno nessun diritto e nessun ruolo, ma che si stanno approfittando di due donne anziane e malate innanzitutto, ma anche di me, che sono rimasta accanto a loro anche quando stavo male, anche quando c'era il lockdown e in casa non veniva più nessuno: io sono rimasta lì, a curare loro anziché curare me, a lavorare in quella casa aiutandomi con un bastone, dopo che mi ero fatta male. Ho fatto tanto e ora mi ritrovo così, messa alla porta senza una spiegazione e con un grande dolore, fisico ed emotivo”. Perché? Per aver provato a far valere il diritto alla salute: la sua salute, ma anche quella donna anziana di cui si prendeva cura. Un diritto che passa anche per gli ausili, per le cure di un medico di famiglia e per l'assistenza infermieristica a domicilio. Tutti diritti che in quella casa venivano lasciati fuori dalla porta: come Svetlana, dal 23 ottobre scorso.
17 anni di lavoro di cura, “per alleviare le sofferenze”
Ma facciamo un passo indietro: un passo lungo 17 anni. Svetlana è arrivata a Trento nel 2004 e subito ha iniziato a lavorare presso famiglie italiane: ad oggi, sono più di dieci quelle in cui ha prestato il suo servizio di cura, capitalizzando esperienze e competenze, attraverso corsi e tirocini in case di riposo. Ora ha in tasca tre attestati come assistente alle persone non autosufficienti. “All'inizio è stata molto dura: appena arrivata, non parlavo l'italiano, non avevo tutti i documenti e, lontana da mia mamma, dai miei figli, da tutta la famiglia, ero distrutta. Iniziai a fare qualche sostituzione nelle case, per qualche settimana o per un mese. Poi ho cominciato finalmente a lavorare in regola. Il primo posto in cui sono stata assunta è stata la casa di una signora di 94 anni non autosufficiente, allettata da sette anni: ci siamo trovate molto bene, anche se non sapevo bene l'italiano: con i suoi familiari, ancora oggi abbiamo una grande amicizia". Non è stato sempre così: "In altre case sono stata trattata come una schiava: mi prendevano a lavorare per una persona ma dovevo lavorare per quattro o cinque e facevo tutto: oltre a prendermi cura della persona non autosufficiente, cucinavo per tutti, lavavo i panni per tutti, stiravo per tutti. Sopportavo, addormentandomi nelle lacrime. Io ho fatto sempre del mio meglio, perché il mio obiettivo è alleviare la sofferenza”.
Far questo significa, a volte, per persone come Svetlana, sopportare le proprie, di sofferenze, dovute non solo alla distanza dal proprio Paese, ma anche alle fatiche del corpo e al duro lavoro quotidiano. Oggi Svetlana ha “dolori dappertutto” e un certificato che parla di 'patologia osteo-articolare importante', 'ernia discale', 'artralgia della spalle destra con rottura sovraspinoso' e altri disturbi fisici. “Devo operarmi alla colonna vertebrale e al braccio destro, ho tanti problemi che non ho curato nei tempi giusti, perché in questa famiglia non era possibile”. Colpa soprattutto degli sforzi e la fatiche che ha dovuto sopportare negli ultimi sette anni.
L'ultimo lavoro, gli infortuni, il licenziamento
G. e F. sono due sorelle di 94 e 86 anni, la prima allettata, “un angelo”, la definisce Svetlana; l'altra – la mia datrice di lavoro - con gravi problemi di ansia e depressione, “circondata e consigliata da persone che decidono al posto suo, le danno informazioni sbagliate e indicazioni scorrette e la allontanano da familiari, amici e da chi potrebbe aiutarla, inclusa la dottoressa di famiglia: insomma, le hanno creato il vuoto intorno. Neanche la dottoressa di famiglia è mai potuta mai entrare in casa: le due sorelle sono in cura da un medico privato, che viene pagato in nero per ogni visita. Una cosa incredibile”.
Svetlana ha lavorato in questa casa per oltre sei anni, con contratto regolare a tempo indeterminato. “Andavamo d'accordo, le due signore e io, ma giravano in questa casa tante persone che lavoravano in nero e prendevano decisioni, pur non avendo un ruolo. Queste persone portavano negatività, informazioni sbagliate, agitazione. Quando è scoppiata la pandemia, io sono rimasta da sola perché, durante il lockdown, non essendo in regola, tutti questi personaggi non avevano la certificazione e quindi non sono più venuti. Così, mi sono ritrovata a lavorare dalle 7 mattina fino alle 9 di sera, da sola, senza un aiuto. Soprattutto, non avevo l'attrezzatura necessaria a gestire la donna non autosufficiente. Perché? Perché il medico privato che la seguiva non voleva presentare la richiesta tramite il medico di famiglia. Aveva convinto anche la mia datrice di lavoro a non volere il sollevatore, raccontandole di incidenti e cadute. Solo il turno di notte era coperto da una cooperativa, ma dalla mattina alla sera ero sola, io con loro due. Ho sopportato la fatica e il dolore di occuparmi di una donna completamente non autosufficiente senza avere gli strumenti adeguati: la sollevavo, la lavavo, la vestivo. Mi sono fatta male più di una volta, per colpa di quegli sforzi nel sollevare e nello spostare la signora: per settimane mi sono dovuta aiutare con bastone per camminare, ma dovevo andare a lavorare lo stesso, perché quelle due donne non potevano fare a meno di me.”.
Così, lavorando in questo modo, senza le attenzioni e gli ausili necessari, "mi sono fatta male più volte, procurandomi gravi problemi fisici, come capita a tante di noi. L'ultimo infortunio, a settembre, è stato il più serio: mi sono fatta molto male a braccio, spalla e polso. Sono andata al Pronto soccorso e da qui è partita la denuncia all'Inail. Prima di rientrare al lavoro, dopo 15 giorni di malattia, ero molto preoccupata: come avrei potuto lavorare in quelle condizioni, con un dolore che ancora non passava e una spalla fragile e danneggiata, dovendo sollevare quella donna più volte al giorno? Così ho scoperto che, tramite il medico di famiglia, avremmo potuto avere gratuitamente il sollevatore e la comoda, un altro ausilio fondamentale quando si ha a che fare con persone non autosufficienti. Mi sono recata dalla dottoressa di famiglia, che ha inoltrato subito la richiesta degli ausili. Ha inoltre attivato, finalmente, l'assistenza infermieristica a domicilio, a cui la donna non autosufficiente aveva diritto. Sono sicura che sia stato questo il motivo del mio licenziamento: non dovevo rivolgermi alla dottoressa, non dovevamo chiedere gli ausili. Così era stato deciso, sulle spalle mie e di quella povera donna anziana e malata. Infatti, un paio di giorni dopo, il 23 ottobre, dovevo lavorare dalle 14 alle 20, ma ho trovato in cortile due estranei, che non avevo mai visto prima, con dei fogli in mano: con arroganza e prepotenza, mi hanno detto che il mio contratto era cessato e non potevo più entrare in casa. Mi hanno detto di firmare, io ho chiesto di parlare con la datrice di lavoro, ma non mi hanno permesso di entrare e hanno infilato la lettera nella mia borsetta. Allora ho chiamato le Forze dell'Ordine, che mi hanno consigliato di recarmi il lunedì successivo alla caserma della Guardia di Finanza. L'ho fatto e ho denunciato tutto: che ero stata licenziata senza preavviso e senza motivo, che mi era stato impedito di entrare e parlare con la mia datrice di lavoro, ma anche che in quella casa lavoravano tante persone in nero. Finora, né Ispettorato del lavoro né nessuno si è fatto vivo”.
Nel frattempo, “dopo l'ultimo infortunio, ho ancora tanto dolore a braccio e spalla e dovrò operarmi. Sono molto preoccupata di trovarmi così, alla mia età, dopo tanto tempo, senza lavoro, ma soprattutto senza sapere come curarmi e come far valere i miei diritti. Così, ho scelto di raccontare e di denunciare; per me, ma anche per tante donne come me, che subiscono prepotenze, perfino violenze e soprusi, si ammalano e a volte muoiono”.
I diritti siano tutelati, a partire dal “diritto a non farsi male”
Quello che chiede, Svetlana, è rispetto della dignità e dei diritti, a partire dal diritto alla salute. “Io amo tanto questa che chiamo ormai la mia città, voglio contribuire allo sviluppo di questo paese, cui sono grata. Sono in attesa di cittadinanza e spero di poter essere utile ancora, svolgendo il mio lavoro con tutta la mia capacità e volontà di far del bene alle persone bisognose di aiuto. La mia preoccupazione è come andare avanti ora, con questi problemi di salute. Mi sono rovinata i tendini, le ginocchia, la colonna alzando continuamente pesi, solo perché non avevo l'attrezzatura adeguata, indispensabile per assistere le persone non autosufficienti. Serve una legge adeguata, che tuteli le badanti dell'assistenza a domicilio: non si può dare mano libera al datore di lavoro, non si può permettere che tanti come me si ammalino o si infortunino, anche gravemente. Serve un contratto che tuteli il personale che lavora nella cura delle persone malate e invalide e che obblighi il datore di lavoro a fornire le attrezzature necessarie per il lavoro di cura con le persone non autosufficienti. La dignità delle badanti va difesa, a partire dalla salute. Il problema del licenziamento dopo l'infortunio e la malattia esiste e deve essere regolamentato. Non solo: dovrebbero esserci garantiti, quando ci infortuniamo o ci ammaliamo, tutti quei diritti che spettano a chi si fa male o si ammala sul lavoro: invece, questo non avviene praticamente mai. Al contrario accade spesso che, nel momento in cui ti fai male, arriva il licenziamento. I nostri diritti devono essere garantiti, così come deve essere assicurata un'assistenza medica adeguata alle lavoratrici come me. Tanti miei connazionali di tante nazionalità sono andati via nelle bare, nelle carrozzine, invalidi e senza riconoscimento, solo con le amarezze e il dolore nell'anima e un ricordo doloroso. Questo non deve più accadere, il nostro grido deve essere ascoltato”.
Redattore Sociale ha messo in contatto Svetlana con Silvia Dumitrache, presidente di Adri, Associazione donne romene in Italia, che si occupa di casi come il suo e difende i diritti delle lavoratrici che vivono questa condizione: “Svetlana ha reagito molto bene e vorrei portarla come modello – commenta Silvia – Troppe donne vivono una condizione simile passivamente, senza denunciare, senza tutelarsi. Lei invece ha saputo trovare la forza di reagire e di denunciare. Ora l'ho messa in contatto con uno sportello in cui potrà chiedere aiuto e sostegno, ma intanto vorrei ringraziarla pubblicamente per il coraggio che ha avuto: donne come lei sono indispensabili per far sì che questa diffusa condizione di sfruttamento e sofferenza emerga dal silenzio che l'avvolge e riceva la giusta attenzione e le dovute tutele”.
Chiara Ludovisi