Sulla soglia della Cattedrale: intimità e potenza della Croce
Il “noi” e il “loro” superato di fronte al cuore di Gesù, il “ricapitolatore”
Sembra di compiere un cammino senza fine quando il piede si stacca dall’ultima pietra della piazza e si entra nella Cattedrale. Fuori, il regno dei selfie, degli influencer, degli smartphone, dei viaggi per fare nuovi selfie, degli ansiolitici, degli antidepressivi, delle meditazioni buddiste copiate dal web, dei romanzi su piccole perversioni quotidiane, dello scannarsi tra vicini di casa, dell’immolarsi per difendere un canile, della politica smontata dal di dentro, del lavoro che chissà, dei divorzi a velocità lampo, degli incidenti in macchina, in moto, in bici, a piedi, del cancro, dei virus d’importazione. Certo, anche delle infiorescenze di glicine, dei cieli lustri, del marmo di Carrara, della claritas, in tutte le sue miracolose apparizioni, sia etiche che estetiche. Oltre il portale, resta solo questa claritas.
Bellezza, compostezza, sensatezza, venerazione, stupore, amore. La bellezza: nel dedurre ogni atto, interiore o esteriore, dall’alto. La compostezza: nell’attendere. La sensatezza: nel sapere in ogni istante che il dolore è l’ombra su cui sono scolpite le lettere del nostro nome, di quello dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri amori. La venerazione: nel sapere che c’è un di più cui dobbiamo guardare, che ci strappa dalla gravità del nostro essere finiti e soli. Lo stupore: perché è miracolo questo disporsi in un ordine dove i profili delle cose non si fanno più guerra e tutto può lasciarsi essere, in una sublime percezione di libertà nella verità. Amore: benedizione dell’ora, dello ieri e del domani, che sono solo una sua invenzione, o sono solo dirupo. Ma infinita è la strada che separa le locandine dell’edicola della piazza dalla voce che vibra nell’invocazione: Kyrie eleison, regale e abissale insieme.
Il mondo fuori, stravolto dai suoi incidenti – e dalla presunzione folle di poterne guarire dimenticando, soprattutto la Croce. Tante polemiche sui crocifissi nelle aule si scioglierebbero in lettere disarticolate se solo si ricordasse che lì, in quel legno, in quella plastica, in quel marmo, in quel bronzo sono inchiodati e sanguinano i nostri dolori e i dolori moltiplicati dei nostri amori. Si contesta la curia e si vuole dimenticare la Croce, con un’energia perfino strana. Ci si sforza di allontanare da sé un piangere grandioso che diventa sospiro e riempie le aule liturgiche, con la loro vocazione alla sconfinatezza, grandi proprio per questo: per raccogliere un sospiro così grande. Allontanare il pianto che sgorga dal bisogno di essere amati e dal bisogno, ancora più misterioso e doloroso quando è negato, di amare. Al di là del portone, eccolo, senza distrazioni vigliacche, senza volgarità egoistiche, che diventa suono e sollievo. E si fa voce che invoca parole che sappiano esprimerlo, tra violenza, desolazione, tenerezza, salute. La strada tra la piazza e l’aula liturgica resterà infinita, finché non si guarderà la Croce in tutta la sua potenza e straordinaria intimità.
Chi è l’uomo sulla Croce? Un corpo giovane e vecchissimo, nella morte cinica, che non ha occhi né cuore, per non rischiare la pietà. Quel corpo che la donna senza nome del Vangelo di Marco voleva coprire di un’eternità di profumo. Il figlio trentenne di una ragazza ebrea, ucciso da una sofferenza lancinante durata ore: non l’avversario di Galilei o delle donne bruciate come streghe. Con le mani e i piedi trapassati dalla cattiveria di una giuria improvvisata, dove la parte più squallida è toccata alla folla. Attaccato con tre chiodi alla terra e sospeso nel cielo, tra due assassini che piangevano accanto a lui la paura e il male che tornava indietro con cento volte la forza con cui era uscito dalle loro mani. Il “ricapitolatore” del tempo e di tutto quello che ci sta dentro: il vaso di nardo, il lenzuolo di Giuseppe di Arimatea, i discepoli incapaci «di vegliare un’ora soltanto», il bacio del più piccolo e brutto di tutti gli uomini, il canto del gallo, nella notte che possiamo osare chiamare nostra, l’invidia, il boato della folla, la corona di spine, l’aceto – e noi.
Pur trapassati da giorni che sono chiodi, da minuti che sono condanne, pur camminando verso il punto in cui qualsiasi smisurato universo frugato dai telescopi finisce, si dà così agilmente per scontata la Croce. Non ci si ricorda che sono due pezzi di legno inchiodati uno sull’altro per inchiodare il nostro respiro, finché comincia a raschiare il petto, a farsi innaturale, a uscire a scatti, a perdersi in una nebbia che non si sa da dove viene e tappa le orecchie, impasta i sensi, copre tutto.
Ci inchiniamo e sforziamo la voce perché il canto riesca a dire qualcosa – o anche solo ascoltiamo. Attendiamo. Forse, che improvvisamente l’aula si riempia di tutti quelli che sono fuori e sono ugualissimi a noi, e stanno anche loro sospesi tra i due ladroni, traditi, dimenticati, cancellati, morsi dal male, dalla paura, dalla solitudine. Ingannati dalla furbizia dei loro stessi pensieri. «Nel cuore sta il centro: per questo si adora il cuore di Gesù; il suo capo lo si adora soltanto quando è ricoperto di piaghe e di sangue: cioè come rivelazione del suo cuore» (Hans Urs von Balthasar).
Anna Valerio