Spazzatura spaziale. I “rientri spaziali controllati” sono solo la minima parte del totale e quelli incontrollati… fanno tremare i polsi
Al momento non esiste alcuna iniziativa o progetto operativo per la bonifica dello spazio circumterrestre, né a livello di organismi internazionali né di singoli Stati.
Tutti (o quasi) conoscono il personaggio del Capitano Nemo (“Ventimila leghe sotto i mari”, J. Verne), indomabile argonauta alla guida del suo sommergibile Nautilus. Pochi, invece, sanno cosa sia il “Punto Nemo”, luogo così chiamato proprio in onore del celeberrimo Capitano. Stiamo parlando di un tratto di mare (manco a dirlo) collocato nel mezzo del Pacifico meridionale, a 2700 km da qualunque insediamento umano permanente, tecnicamente denominato “polo oceanico dell’accessibilità”, in pratica il punto marino più distante da qualunque terra emersa.
Ed è proprio nel Punto Nemo che si è deciso di collocare… un cimitero! Beh, a dire il vero, non si tratta di un cimitero comune, bensì del cimitero dei detriti spaziali. E’ qui, infatti, che, poco dopo gli inizi dell’era spaziale (convenzionalmente riconducibili al 4 ottobre 1957, data del lancio del satellite Sputnik 1 da parte dell’URSS), si decise di far rientrare i veicoli spaziali destinati alla dismissione dalla loro orbita e alla loro distruzione tramite il rientro in atmosfera.
Secondo le stime degli esperti, dal 1971 a oggi, il Punto Nemo avrebbe accolto oltre 300 detriti spaziali, fra cui la stazione spaziale sovietica Mir. Ed è già stabilito che esso diventerà “la tomba” anche della Stazione spaziale internazionale (ISS) e dell’Hubble Space Telescope (HST), quando si deciderà di porre fine alle loro missioni.
Parlare di “rifiuti spaziali” convogliati in preciso punto del nostro pianeta, però, significa riferirsi soltanto ai cosiddetti “rientri controllati” dallo spazio, nei quali è possibile guidare i detriti fino ad un determinato punto di atterraggio (o ammaraggio). Il problema è che i “rientri spaziali controllati” sono solo la minima parte del totale e quelli incontrollati… fanno tremare i polsi! Basti pensare alla recente esperienza (2 aprile 2018) del rientro della stazione spaziale cinese “Tiangong-1”, con l’allerta mondiale che ne è conseguita (per fortuna, conclusasi senza problemi particolari). Proprio questo evento ha spinto gli esperti di politiche dello spazio a riconsiderare rischi e pericoli di una gestione non regolamentata delle attività spaziali.
Ne è espressione un recente articolo (pubblicato su “Nature Astronomy”), redatto da un gruppo di ricercatori guidato da Michael Byers, della Università della British Columbia (Vancouver, Canada), che analizza appunto l’aumento dei rischi causati dal notevole incremento delle attività spaziali, partendo da due rientri incontrollati degli stadi centrali del razzo cinese Lunga Marcia 5B, avvenuti nel 2020 e nel 2021.
Il termine ‘detriti spaziali’, solitamente, indica anzitutto i satelliti ‘dismessi’, cioè apparati integri, ma che hanno finito la loro funzione operativa e continuano ugualmente a rimanere in orbita. Ci sono poi stadi interi o parti di lanciatori, rilasciati nel corso delle operazioni di messa in orbita dei satelliti. “Tutti questi oggetti – spiega Alberto Buzzoni, astronomo dell’Istituto nazionale di astrofisica presso l’Osservatorio di astrofisica e scienza dello spazio di Bologna – hanno masse individuali dell’ordine di alcune tonnellate e sono i principali contributori alla massa totale dei detriti in orbita. In termini di numero, invece, sono i rottami di piccole dimensioni e peso che compongono la maggioranza dei circa 30.000 detriti conosciuti e censiti. Si va dai bulloni alle scaglie di vernice, tutti generati durante i lanci o le operazioni in orbita oppure dovuti a esplosioni accidentali o indotte a bordo dei satelliti, oppure ancora come esito di esperimenti militari anti-satellite”.
Dal punto di vista orbitale, invece, i detriti spaziali vengono categorizzati in tre classi: LEO (Low Orbit Objects, il cui apogeo è inferiore a 2000 km; sono la categoria di gran lunga più popolosa), MEO (Medium Orbit Objects, che orbitano tra 2000 e 36.000 km, per scopi di navigazione satellitare) e GEO (GEOsynchronous Orbit Objects, con orbite circolari attorno ai 36.000 km, per scopi di comunicazione). Una minoranza di oggetti, poi, si trova su orbite altamente ellittiche che transitano su più regimi orbitali.
Per i voli con astronauti a bordo (ad esempio, quelli della Stazione spaziale internazionale), i detriti più pericolosi sono proprio quelli più piccoli (1-2 cm), il cui numero è stimato nell’ordine del milione di pezzi, a fronte degli appena 30.000 detriti “grandi”, gli unici rilevabili e dei quali si conosce l’esatta posizione in ogni momento.
Gli oggetti di piccole dimensioni, invece, sono di fatto “invisibili” alla sorveglianza radar e ottica da terra, rappresentando quindi delle vere e proprie “mine vaganti” totalmente fuori controllo. “Grazie alle straordinarie velocità orbitali, – specifica Buzzoni – sfrecciano a circa 30.000 km/h, accumulano l’energia di vere e proprie pallottole ‘da caccia grossa’, in grado di perforare le lamiere di alluminio e gli oblò delle astronavi, nonché ovviamente le tute degli astronauti, nel corso delle passeggiate spaziali”. “Per chi vive sulla Terra o vola negli strati bassi dell’atmosfera – aggiunge Luca Salotti, dell’Agenzia spaziale italiana – il pericolo è rappresentato dal rientro di oggetti orbitanti in atmosfera con relativa frammentazione nei pressi del gradiente atmosferico, intorno a 120 km, e dalla sopravvivenza di qualche frammento a quota basse (in genere si tratta di oggetti composti da leghe metalliche dure come quelle dei motori dei razzi o dei serbatoi di combustibile). Si calcola che rientri in atmosfera qualche tonnellata di materiale alla settimana, ma i rischi di sopravvivenza di qualche frammento al suolo con relativi danni a persone o cose sono molto bassi, tenendo conto che la maggior parte della superficie della Terra non è abitata sia perché remota sia perché ricoperta da acque oceaniche”. In questi casi, quindi, più che l’incolumità delle singole persone, è in pericolo piuttosto l’integrità delle infrastrutture strategiche a terra (treni, fabbriche, impianti industriali), in mare (petroliere, navi cargo) e in volo (aerei di linea o militari), tutti bersagli che offrono un’area molto maggiore delle persone ai proiettili in caduta e per i quali una collisione potrebbe avere conseguenze disastrose”.
Al momento, purtroppo, non esiste alcuna iniziativa o progetto operativo per la bonifica dello spazio circumterrestre, né a livello di organismi internazionali né di singoli Stati, anche si registra un crescente interesse industriale per concetti e progetti di bonifica “attiva” dello spazio in orbita LEO (che è quella di maggiore valore economico). Ma, al di là di alcuni convinti sforzi in questa direzione, permane un certo scetticismo generale, data la difficile sostenibilità economica di questo tipo di approccio: ogni missione “spazzina” avrebbe un costo dell’ordine del centinaio di milioni di euro, con esiti trascurabili in termini di pulizia.