Sopravvivere alla peste. Quando la letteratura racconta la vittoria contro il male
Tre grandi scrittori narrano come l’amore e la dedizione verso gli altri siano fondamentali nel percorso di guarigione.
“Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce (…) per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”.
In uno dei capolavori di Albert Camus, “La peste” (1947), con la fine della malattia ricomincia la vita e la -stavolta- positiva resa dei conti con il bene, perché in una Orano assediata ed isolata dal morbo, si sono fatti onore personaggi che si sono immolati per il bene comune e che fanno esclamare alla voce narrante che “gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al di sopra d’ogni dolore”. Il flagello narrato dallo scrittore francese, nato in Algeria nel 1913, non era però solo materiale: simboleggiava l’incubo da cui l’occidente era appena uscito, quello dell’assedio nazista, che aveva rischiato di infettare l’Europa, e che talvolta rischia di ripresentarsi nel sonno della ragione.
Ma Camus non è stato il solo a descrivere magistralmente la resistenza -e la vittoria- dell’umanità di fronte agli assedi che il male pone alla nostra Cittadella, come direbbe Chesterton.
Cento anni prima Manzoni aveva affrontato nei Promessi sposi la reazione al pericolo da parte di uomini che non dimenticano i propri simili e che, da qualsiasi condizione sociale provengano, si pongono al servizio chi soffre. Ne è esempio lampante il cardinale Federigo, che “dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio”, e che invece di andarsene in una villa lontana dal contagio, “rigettò un tal consiglio (…) e non curò il pericolo, né parve che se ne avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello”. In poche parole, il cardinale mette in pratica nello stesso tempo il codice religioso e quello laicamente umano: stare vicino agli altri anche nel pericolo.
Ma se andiamo ancora indietro nel tempo, stavolta di cinquecento anni, la letteratura ci presenta un altro episodio di resistenza al male. In una Firenze sconvolta dalla peste, nella quale il disordine morale rischia di prendere il sopravvento, il laicissimo, ma non tanto, come vedremo, Boccaccio racconta la presenza di un bene fatto anche di ordine morale, laico e religioso. Sette fanciulle “di leggiadra onestà” e tre ragazzi si incontrano nella chiesa di Santa Maria Novella durante la grande epidemia del 1348. Si accordano per andarsene fuori città per sfuggire non solo alla malattia, ma all’ abbandono dei codici morali, ma ad una condizione: “Per che, se alla nostra salute vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci, che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua”. Nonostante la fama sinistra che una certa pubblicistica ha appiccicato al Decameron, già da queste poche osservazioni si dovrebbe intuire che i libri andrebbero letti nella loro interezza prima di giudicarli. Il caos della malattia, amplificato da quello scaturito dalla “iniquità degli uomini” trova in una chiesa dedicata alla Vergine un nido, e le persone che decidono di porre un freno al disordine nell’ordine della natura stabiliscono tra di loro il patto del rispetto e della cortesia. Il loro accordo, allietato dai racconti, è cadenzato dalla profonda partecipazione al canone liturgico. Se i suoi racconti talvolta parlano della corruzione di uomini di Chiesa e di trasgressione sociale, accade perché Boccaccio voleva parlare della realtà umana, senza per questo attaccare la fede cristiana. L’ordine, la fede, la cavalleria e il rispetto sono gli argini che lo “scandaloso” Decameron pone al disordine e alla paura. Ieri come oggi la grande tentazione è il lasciarsi andare o il trarre profitto dal male, ma la letteratura ci insegna che in tutti i tempi il bene ha prevalso anche grazie a qualcosa che sembra, apparentemente, non avere a che fare con la medicina: l’amore e l’aiuto per chi soffre.