Salute mentale, pazienti ancora isolati: “In alcune strutture si entra due volte al mese”

La denuncia di un familiare: “Le regole non cambiano, neanche con la fine dello stato di emergenza. Mia zia è trascurata, in pochi anni è diventata irriconoscibile. Possiamo vederla per mezz'ora due volte al mese”. Trincas: “Limiti inaccettabili, bisogna tornare alla normalità. Succedono cose gravissime. Familiari considerati elemento di disturbo”

Salute mentale, pazienti ancora isolati: “In alcune strutture si entra due volte al mese”

“Possiamo vedere mia zia due volte al mese, solo per mezz'ora, rigorosamente se muniti di Green Pass. Sono regole rigidissime, come se fossimo ancora all'inizio dell'emergenza sanitaria”: la denuncia arriva a Redattore Sociale tramite la telefonata di un familiare. Uno dei familiari che non si rassegna a regole oggi incomprensibili e obsolete e tanto meno si arrende al fatto di poter far visita a sua zia così raramente. Ma se nel caso delle Rsa e degli anziani, si sono costituiti comitati e associazioni che reclamano questo diritto, nel caso della salute mentale la rassegnazione è più diffusa: “La verità è che molte delle persone ricoverate nelle strutture psichiatriche sono abbandonate a se stesse, anche dalle famiglie: la struttura è una soluzione che si tengono stretta, perché avere in casa queste persone è difficile, spesso impossibile. Quindi quasi nessuno protesta”. In questo modo, nel silenzio generale e lontano dai riflettori, queste strutture restano chiuse, per non dire blindate, con i familiari lasciati fuori dalla porta o dalla finestra, o ammessi a entrare solo periodicamente e per pochissimo tempo. “Così è sicuro che questi pazienti non potranno stare mai meglio – fa notare M., che ha sua zia ricoverata in una clinica psichiatrica del Lazio – Quando vedo mia zia, saltano agli occhi gli effetti di questo isolamento: quando è entrata era una bella donna, piena di problemi ma fisicamente in forma. Ora è molto trascurata, irriconoscibile. E come lei, tutti gli altri: spesso sporchi, maleodoranti, insomma abbandonati”. E questo, evidentemente, è più facile che accada lontano dagli occhi dei familiari. “Se chiediamo ragione di questi limiti nelle visite, ci viene detto che sono regole regionali, ma non è vero”.

Ce lo conferma Gisella Trincas, presidente di Unasam, che ha particolarmente a cuore questo tema: “Le direzioni sanitarie delle singole strutture dettano regole spesso più rigide di quelle previste dalle ordinanze della regione di appartenenza. Il problema, però, è che questo è di fatto legittimato dalla normativa, che dall'inizio dell'emergenza sanitaria ha dato facoltà proprio ai direttori sanitari di stabilire regole finalizzate, teoricamente, a proteggere le strutture stesse e i loro ospiti. Da quando è entrato in vigore il Green Pass, riceviamo segnalazioni di strutture che dettano regole rigidissime. E anche ora, con la fine dell'emergenza sanitaria, non si vede alcun ammorbidimento: basti pensare che il Green Pass, in queste strutture, continuerà ad essere obbligatorio, tanto per gli operatori quanto per i familiari. E questa rigidità sta producendo effetti orribili: abbiamo tanti famigliari che ci chiamano disperati perché non riescono a veder i propri cari per mesi. E questo continua ad accadere. Così come continua a succedere la cosa più drammatica che possa succedere: anziani, o persone malate, che muoiono da sole, perché viene impedito ai familiari di vederli e di assisterli, all'interno della struttura in cui sono ricoverati. Ho sentito e continuo a sentire testimonianze terribili: parliamo di anziani, o di persone con problemi mentali, per cui la non vicinanza dei famigliari è drammatica. Ora, con la cessazione stato di emergenza, da questo punto di vista non è cessato proprio nulla: qual è il senso di questa rigidità? Non si riesce a comprendere”.

Diversa è la situazione nelle comunità terapeutiche per persone con sofferenza mentale: “Qui, anche nel pieno della pandemia, i gestori hanno per lo più usato il buon senso: i familiari hanno potuto continuare a far visita ai propri cari, pur con tutte le accortezze necessarie, così come i pazienti hanno potuto continuare a uscire e rientrare. Io ho un fratello ricoverato in una di queste comunità e ho sempre continuato a vederlo, a ad andare insieme a lui a casa di nostra madre. Dipende da chi gestisce le strutture: si possono rispettare le disposizioni generali senza accanimento e soprattutto senza imporre ulteriori vincoli, come invece hanno fatto alcune direzioni sanitarie, appesantendo ulteriormente le disposizioni generali del ministero della Salute. Ora, questi vincoli e queste regole così rigide non sono più accettabili né giustificabili dall'emergenza sanitaria: le persone che sono nei luoghi dell'assistenza e della cura non possono avere il tempo contingentato per vedere i propri cari, ma devono poter accedere liberamente nei luoghi in cui questi sono ricoverati, anche per offrire il proprio prezioso contributo nella cura e nell'assistenza. Questo permette anche un alleggerimento del carico degli operatori, oggi stremati e insufficienti. La prolungata assenza dei familiari – denuncia Trincas - ha determinato grandi problemi nella gestione dei pazienti”.

Non solo: di fronte a tanta rigidità, che tarda ad allentarsi, sorge il sospetto: “L'ingresso dei familiari nei luoghi della cura è sempre visto da operatori come elemento di disturbo, perché i familiari vedono, sentono, si accorgono subito di qualcosa che non va. Di fatto, è una presenza disturbante. Non è così ovunque, naturalmente: ci sono gestori e operatori illuminati che, al contrario, vedono nella presenza dei familiari un valore aggiunto, di alleggerimento del carico. Se si continuano a emanare disposizioni rigide, sorge il sospetto che si voglia andare verso una gestione dei loghi della cura senza 'intromissione' dei familiari. Sono accadute cose gravi nel nostro paese, che non hanno nulla di umano. E' tempo che questa situazione e che il governo ripristini il diritto a non essere discriminati perché si è ricoverati”.

Come fare, allora, per invertire rotta? “Bisogna affrontare il problema che si è posto dall'inizio della pandemia: le disposizioni vengono date dal ministero della Salute, mentre in questa materia le regioni hanno perso totalmente la loro autonomia di governo. Chi può costringere i direttori sanitari a riaprire? Devono arrivare indicazioni chiare alle regioni dal ministero: è il ministero che deve chiedere alle regioni di emanare disposizioni che non consentano più alcuna eccezione. Anche nel caso dei privati, questo elemento dell'apertura ai familiari deve essere chiarito nel momento dell'accreditamento: le regioni devono stabilire regole e requisiti di funzionamento, soprattutto in merito al rapporto con i familiari. E' questo che oggi chiediamo con forza, per la tutela dei più fragili tra i fragili e il ripristino dei loro diritti umani”.

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)