Prendiamoci cura, con serietà, della qualità delle relazioni
La mano alzata. Si parlava della Divina Commedia, in classe. E poi Mario comincia a raccontare di ciò che sta capitando in famiglia e ci fa riflettere
In classe s’inizia la Divina Commedia. Finita la presentazione del primo canto, propongo alcuni minuti di riflessione personale prima della condivisione. Tempo scaduto e di colpo vedo alzarsi una mano. Visto il soggetto non mi illudo e mi aspetto la scontata richiesta di andare in bagno, per smaltire lo sforzo di attenzione.
Mario invece, con ancora il braccio elevato, comunica a me e alla classe che gli esami della sorellina sono negativi. Inaspettato come un fiume che ha rotto gli argini, esonda il racconto del viaggio, vissuto insieme alla sua famiglia, nella selva oscura della malattia e di come l’apparire di una speranza luminosa, al momento, stia attenuando la paura.
I compagni sapevano da tempo del dramma, ma attendevano pazientemente il primo passo dell’interessato. Adesso che il dado è tratto, partecipano al racconto con domande e riflessioni: lo fanno con un’inedita delicatezza, senza alzare la voce o accavallarsi. Sono irriconoscibili: addirittura, per prendere la parola, alzano la mano.
Sembra quasi che, attendere il proprio turno, li aiuti a sentirsi di appartenere a un gruppo, a leggere la propria individualità in un contesto di comunità. Il clima si fa alquanto intimo e tutti in qualche modo si sentono accolti, percependo di stare in un ambiente che è interessato a conoscere il loro pensiero e non a giudicarli. Sembrano maturati all’istante, pronti ad assumersi la responsabilità delle proprie opinioni e di esporle agli altri.
Mi defilo e lascio che l’intreccio ordinato delle loro parole intessa un momento, destinato a diventare unico nel loro percorso scolastico. La selva oscura di Dante ha buone probabilità di restare indelebile nella loro mente, sottolineata da uno speciale evidenziatore con sfumature particolarmente significative nei loro cuori. Mentre partecipo del momento, più unico che raro, ripenso al gesto originario che ha contagiato l’intero gruppo classe: alzare la mano per prendere la parola.
È un gesto che abbiamo appreso fin da bambini e che ci insegna a non parlare quando ne abbiamo voglia, ma quando è il momento giusto, cioè quando è il nostro turno. Un gesto che ci abitua al rispetto delle norme e al confronto democratico. Insegna a dominare l’infantile egocentrismo in nome di un adulto perseguimento del bene comune.
In aggiunta Mario ci ha mostrato che alzare la mano è anche interrompere un momento che rischia di essere dimenticabile (quando non è da dimenticare), per renderlo davvero importante. Un semplice gesto che riesce a togliere veli e barriere per permettere alla vita di raccontarsi attraverso le parole.
Guardo ancora questi ragazzi dialogare tra loro. Sento di provare un po’ di invidia, la quale a poco a poco muta in un rimprovero per le buone occasioni d’incontro e di scambio che ho sprecato in famiglia, tra amici, al lavoro, nelle riunioni pastorali. Per ogni volta che tutto si è risolto in un futile chiacchiericcio, perché non si sono create le condizioni per comunicarci reciprocamente quello che davvero abitava e spesso tormentava il cuore. Rivedo i "come stai?" detti in fretta, senza dare il giusto tempo all’altro, perché si sentisse veramente ascoltato e potesse esprimersi compiutamente.
Non si tratta di coltivare il rimpianto, né di portare l’educazione al potere, come qualcuno canticchiava anni fa. È tempo di prendersi cura, seriamente, della qualità delle nostre relazioni. Sarebbe davvero triste ritrovarci un giorno, magari dopo una vita passata insieme, a vivere gli uni accanto agli altri da perfetti sconosciuti.