Per i bambini del Centro veneto per le cure palliative e la terapia del dolore, il Natale è nell’attimo presente
Non ci si abitua mai al dolore e alla sofferenza dei bambini che non guariranno mai. L’équipe di Franca Benini all’hospice L’isola che non c’è non li abbandona, fino alla fine. E quando il tempo riesce ad assumere un valore diverso per le famiglie, l’attesa si trasforma in un dono.
L’albero resta acceso tutto il giorno. È trapuntato di decorazioni, come lo sono le cornici sopra le porte. C’è anche un piccolo presepe sopra la mensola, i re magi sono arrivati con i doni, Gesù è già nato. Ha poco senso aspettare, meglio che accada, che l’amore e la tenerezza si spargano intorno. Il profumo di pasta frolla e cannella si diffonde dovunque, all’ingresso, negli angoli delle stanze colorate. Ai piccoli ospiti in pigiamino sembra di essere già a casa, mentre sono avvolti dal calore e dalla costante cura del personale, dei medici e degli infermieri. L’atmosfera del Natale è entrata all’Isola che c’è da metà novembre: il merito è dell’associazione Braccio di ferro che ha donato l’allestimento all’hospice pediatrico di via Ospedale a Padova, che è anche la sede del centro di riferimento regionale per la terapia del dolore e per le cure palliative nel bambino.
«Qui dentro il tempo ha un valore unico. Le nostre famiglie lo sanno, hanno capito cos’è importante perché la malattia centra solo sull’essenziale». Franca Benini spiega così il Natale all’Isola che c’è. A desiderare il primo hospice pediatrico a Padova più di 35 anni fa fu lei, che dal 2003 dirige anche il centro della Regione Veneto che assiste a domicilio in tutto il territorio più di 200 bambini con patologia inguaribile.
«Sono bambini – prosegue Franca Benini – con percorsi estremamente complicati e faticosi che vanno affrontati insieme alle famiglie e per questo con la mia équipe cerchiamo di semplificare ogni cosa. L’hospice con i suoi quattro posti letto è solo una sorta di porta d’ingresso affinché i piccoli, una volta dimessi dall’ospedale, possano ritornare quanto prima a casa assistiti in tutto, dalla gestione del dolore ai bisogni psicologici, familiari, sociali, anche spirituali».
Come si aspetta il Natale all’Isola che c’è? Si riesce a fare festa?
«Funziona come in una casa piuttosto che in un ospedale. E come in tutte le case l’aria frizzante della festa è mescolata al caos dei preparativi. L’associazione Braccio di ferro ha curato gli allestimenti del centro, lo zampognaro è passato con la cornamusa a dispensare musica e canzoni natalizie, mentre i doni sotto l’albero sono arrivati da famiglie, associazioni, scuole. Ogni persona aggiunge del suo e tutto si crea insieme. I maestri pasticceri, grazie all’associazione La miglior vita possibile, sono riusciti a realizzare il laboratorio di biscotti, non però come prima del Covid quando i nostri bambini venivano qui a giocare con pasta e formine per poi portarsi a casa i dolci. Mi auguro che l’anno prossimo sia finalmente tutto diverso».
Quale valore ha l’attesa tra queste mura protettive?
«Non esiste protocollo. A volte l’attesa è deleteria, peggiore della meta. Tutti i bambini vivono la condizione dell’inguaribilità e capita spesso che i genitori nutrano la speranza in una cura che deve arrivare o che addirittura non esiste. Ogni famiglia vive l’attesa a suo modo, spesso dipende dal contesto che riusciamo a costruirle intorno: le difficoltà a volte sembrano insormontabili e il nostro compito è riuscire ad anticipare i bisogni del bambino, a trovare risposte valide e condivise perché la sua strada e quella della sua famiglia sia più semplice da percorrere. A un certo punto arriva la svolta e sono proprio loro a insegnarci, ogni volta, qualcosa di fondamentale, quando trovano la chiave per vivere il tempo focalizzandosi sull’attimo presente, senza rincorrere un futuro che non c’è».
Cosa significa per lei vedere un bambino soffrire dopo tutti questi anni?
«Ogni volta provo sempre lo stesso sentimento di rabbia, di ingiustizia e di impotenza che mi ha spinto 35 anni fa a coprire un buco per questi bambini per cui all’epoca il sistema sanitario, non potendo fare nulla, li lasciava andare, li dimenticava dentro alla sofferenza. Ogni bambino ha la sua storia e per la condizione di dolore e di irreversibilità che deve affrontare provo un senso di rabbia enorme: da sempre cerco di conviverci e lavorare al massimo perché la situazione non sia ancora più difficile. Se con l’équipe ci riusciamo, assistiamo a dei piccoli miracoli: i bambini ritornano a scuola, a fare sport, a stare con gli amici. E le famiglie non si sentono più abbandonate nel loro doloroso percorso».
Ci si abitua mai al dolore degli altri? Alla fine prematura di un’esistenza appena iniziata?
«No e non so ancora se sia un bene oppure un male. Qui dentro la vita ti pone costantemente domande sul suo senso, sul dolore, sulla morte. No, non credo che nessuno si possa abituare a questo. Vedere un bambino soffrire fa scattare dentro qualcosa e insieme ci uniamo ancora di più per dare risposte ai suoi bisogni. A volte qualcuno cede sotto questo peso, allora c’è un collega che sopperisce e va avanti al posto suo, aspettando che l’altro si riprenda. Sappiamo che il nostro scopo è garantire continuità agli obiettivi che ci poniamo per ogni singolo bambino».
Oltre 200 bambini con le famiglie seguiti in Veneto
Il Centro regionale per la terapia del dolore e per le cure palliative in età pediatrica, diretto dalla dott.ssa Franca Benini, conta su un’équipe formata da sedici infermieri, sei medici, uno psicologo e un fisioterapista. Il Centro, il primo a essere nato in Italia, attualmente segue più di duecento piccoli con malattia inguaribile e le loro famiglie, coadiuvando e supportando la rete dei servizi territoriali (pediatra di libera scelta, distretto, ospedale di area…).
La sede del centro è in via Ospedale civile 57 a Padova, all’interno della struttura che ospita anche l’hospice pediatrico L’isola che c’è. Sorto più di trent’anni fa l’hospice mette a disposizione quattro stanze per accogliere in regime di residenzialità i bambini con malattia senza terapia e alcuni componenti della sua famiglia.