Orfane di femminicidio. Quando una comunità dice: “Sono figlie di tutti noi”. La testimonianza del parroco
Il 2 marzo la condanna a 30 anni di carcere di Angelo Lavarra per avere ucciso la moglie in un piccolo paese in provincia di Vicenza. Vittime invisibili, due sorelline adolescenti rimaste orfane delle quali si prende cura nei primi mesi tutta la comunità, fino a quando non vengono affidate alla zia. Un buon esempio di collaborazione tra istituzioni locali, società civile e parrocchia, dice al Sir don Fabio Balzarin. Il Comune avvia uno Sportello donna intitolandolo alla mamma uccisa
Il 2 marzo il Tribunale di Vicenza ha emesso la sentenza di condanna a 30 anni di carcere nei confronti di Angelo Lavarra, guardia giurata, in carcere dal 20 novembre 2018 per avere ucciso a Marano Vicentino con un colpo di pistola alla nuca la moglie Anna Filomena Barretta, tentando poi di spacciare l’omicidio per suicidio e ammettendo la propria colpevolezza solo alcuni mesi dopo. Anna, che allora aveva 42 anni, ha lasciato due figlie adolescenti di 11 e 14 anni, vittime invisibili e orfane due volte: della mamma che non c’è più e del padre che l’ha strappata loro violentemente e sta scontando la pena in carcere.
Bambine che all’improvviso si trovano catapultate in quell’esercito di fantasmi che sono gli orfani di femminicidio – dal 2000 oltre 1.600 – sui quali, una volta spenti i riflettori dei media, piomba spesso una silenziosa cappa di indifferenza.
Ma per le due ragazzine di Marano Vicentino si è mossa tutta la comunità, come racconta al Sir don Fabio Balzarin, giovane parroco di Santa Maria Annunziata, la chiesa frequentata dalla famiglia.
Don Fabio era arrivato in quella parrocchia nell’ottobre 2018, appena un mese prima della tragedia che ha scosso il piccolo paese nel quale, ricorda, “tutti pensavano che drammi come questo potessero accadere solo nelle grandi città. Ogni volta che i media parlavano di femminicidi, ‘da noi non capiterà mai una cosa del genere’ si diceva”. Eppure è successo e
“tutta la comunità si è fatta carico del dramma e della sofferenza delle bambine.
La maggior parte del lavoro lo ha svolto l’amministrazione comunale e noi come parrocchia abbiamo collaborato per cercare di affrontare insieme una realtà tremenda che interroga e mette in crisi”.
“Non avevo ancora avuto modo di conoscerli bene – prosegue – ma so che la famiglia frequentava la parrocchia, venivano a messa la domenica e le ragazzine andavano al catechismo. Una famiglia comune, apparentemente normale, pur con alcuni problemi di relazioni al suo interno, ma come tante oggi”. All’inizio la versione del marito – che si trattasse di suicidio – sembrò verosimile. “Ai funerali, e anche nei primi tempi, nessuno lo mise in dubbio”, racconta il sacerdote, ma successivamente le indagini raccolsero indizi tali da escludere l’ipotesi del suicidio e poco tempo dopo il maritò ammise la propria colpevolezza. “Accanto al dolore, alla paura, alla domanda nei confronti della morte si aggiunsero lo sgomento e la rabbia per essere stati ingannati, soprattutto la preoccupazione per le bambine e la necessità di proteggerle”. Don Fabio racconta di averle incontrate un paio di volte in preparazione dei funerali, prima che sapessero la verità:
“Avevano un fortissimo legame con il papà. La prima volta che le ho viste erano abbracciate, proprio attaccate fisicamente al padre, l’unica persona loro rimasta, figura di cui fidarsi e dal quale si aspettavano amore e protezione”.
Di solito gli orfani di femminicidio vengono affidati – se ci sono – ai nonni materni, ma il sacerdote spiega, senza entrare nei particolari, che anche nella famiglia della mamma “c’erano dei problemi”. Per questo le sorelline “sono state accolte subito in una casa famiglia di un paese vicino gestita dalle suore Orsoline, dove sono rimaste fino all’estate 2019 per consentire loro di terminare l’anno scolastico evitando trasferimenti che avrebbero aggiunto trauma a trauma”. Dalla scorsa estate sono invece state affidate a una delle zie che abita a Cesena e le ha portate con sé. “Credo sia stata la scelta migliore perché con la sorella della mamma hanno un buon rapporto. Staccarsi da questo territorio per loro è stato importante, altrimenti avrebbero corso il rischio di passare il resto della vita marchiate come le figlie di ‘quella che è stata uccisa dal marito’. E poi anche l’allontanamento fisico dai luoghi dell’evento può aiutare a superare il trauma e a tornare, lontane dai riflettori, il prima possibile ad una vita normale”.
“Dopo la morte di Anna – prosegue don Fabio – ci siamo confrontati con l’amministrazione comunale per tentare di comprendere, anche grazie anche all’aiuto del tutore legale subito nominato, quali fossero i modi migliori per aiutare le ragazze. I parrocchiani, ma anche le insegnanti e i genitori dei compagni di classe sono stati loro vicini; le colleghe della mamma hanno organizzato una raccolta fondi per loro. Si è deciso di non fare manifestazioni a caldo che potevano diventare solo espressione di rabbia. Invece un anno dopo, nel novembre 2019, il Comune ha organizzato una fiaccolata per ricordarla, alla quale ha partecipato tutta la comunità. Per l’occasione è stato inaugurato uno Sportello donna a lei intitolato con l’obiettivo di sensibilizzare contro la violenza sulle donne, offrire strumenti di prevenzione e incoraggiare le vittime di maltrattamenti a denunciare prima di arrivare ad una strada senza ritorno”.
La comunità si è davvero stretta intorno alle ragazzine, proteggendole anche da indiscrezioni di certa stampa locale che avevano riportato affermazioni del padre poco rispettose della memoria della loro mamma.
“Abbiamo voluto far sentire loro che non sono sole, ma accompagnate; che la vita può dare loro ancora tante possibilità e va vissuta con fiducia e speranza”. Ma la vicenda di Anna, conclude il parroco, “deve servirci come monito per tenere sveglia l’attenzione su questa drammatico fenomeno sociale ormai diffuso, e sulle vittime che lascia sul campo”. E’ come se l’intera comunità avesse detto: