Oltre gli esami e le quarantene, “un'altra scuola è possibile”. Più che inclusiva, universale
Dario Ianes ha recentemente pubblicato, con Andrea Canevaro, “Un'altra didattica è possibile” (edizioni Erickson). “La pandemia ha irrigidito ulteriormente la scuola, sempre più tradizionale. Eliminare strutture come cattedra, voti, libri di testo e offrire una didattica più aperta e flessibile, renderebbe la scuola universale, senza bisogno di cose speciali per alunni cosiddetti speciali”
Più che inclusiva, universale: è così che Dario Ianes (docente di pedagogia speciale e didattica speciale presso l'Università di Bolzano) immagina la scuola del domani. Una scuola possibile, anzi urgentemente necessaria, perché possa rispondere alle reali necessità e richieste dei bambini e dei ragazzi, soprattutto in un periodo di crisi e difficoltà come quello che stiamo attraversando. Nel volume “Un'altra didattica è possibile”, curato insieme ad Andrea Canevaro per le edizioni Erickson, Ianes tratteggia i contorni di una scuola che non sia solo inclusiva, ma universale appunto.
“Se vogliamo prendere sul serio il lungo percorso che ancora dobbiamo fare verso una scuola inclusiva, meglio abbandonare il termine 'inclusione', perché vogliamo parlare del 100% degli alunni/e, non solo di una parte di esso. Una scuola che non ha più bisogno dell’inclusione è innanzitutto una scuola fondata sull’equità, cioè sull’arricchire il principio (e le corrispondenti prassi) di uguaglianza con quello dell’equità, del coraggio cioè di 'fare differenze' positive, compensative e perequative verso quelle differenze che se non agissimo con equità diventerebbero disuguaglianze”.
Ianes ha in mente una “apertura” e “pluralità” didattica”, di cui indica tre passi fondamentali: innanzitutto, “dovremmo essere ossessionati dallo scoprire, comprendere e valorizzare in ogni modo le differenze dei nostri alunni/e”; secondo passo fondamentale è “l'arricchimento 'interno' delle proposte didattiche normali, per renderle efficaci per una gamma più ampia possibile di alunni/e”. Il terzo passo “è quello della pluralità delle occasioni di apprendimento, dell’offrire una gamma il più ampia possibile di situazioni in cui apprendere e partecipare socialmente. La classe (ma sarebbe meglio parlare di gruppi mobili, eterogenei) è una squadra che si muove verso finalità comuni, verso famiglie di competenze che dovrebbero avere un senso per chi va a scuola, non può disgregarsi in una frammentazione di attività individuali e isolate, ovvio. Ma se vogliamo che ognuno sviluppi il massimo del suo potenziale, quell’alunno/a deve trovare attività che rispondono bene alla sua situazione. Altrimenti lo perdiamo”.
Ma in che misura la scuola reale sta andando in questa direzione? Quasi per nulla, da quanto ci riferisce Ianes.
Eppure, dice Lei, “un'altra didattica è possibile”
Certo che lo è: e nel libro noi vogliamo proprio parlare di queste possibilità, che tanti già sperimentano. La scuola deve essere motore di equità e fare in modo che le differenze non diventino diseguaglianze. Come? Con quello che chiamerei un design universale dell'apprendimento: concretamente, materiali preparati per i diversi tipi di comprensione, che consentano ai ragazzi di scegliere, soprattutto nella scuola secondaria. La primaria ha i suoi pregi e i suoi difetti, ma è più flessibile. La secondaria invece ha il problema della disciplinarizzazione: è una scuola in cui la didattica tradizionale la fa da ancora da padrona.
Con la pandemia, si è iniziato a parlare di riforma della didattica, di scuole aperte, moltiplicazione degli spazi di apprendimento, comunità educanti. Qualcosa sta cambiando?
No, anzi la pandemia ha innanzitutto sviluppato ancor di più i meccanismi di disuguaglianza: pensiamo a ciò che è stata la Dad per gli studenti con disabilità o Dsa. In secondo luogo, ha aumentato il disagio degli studenti. Terzo, non ha affatto incoraggiato quella svolta didattica che attendiamo: una svolta che non si può dare con il computer. Anche ora che si è tornati a fare scuola per lo più in classe, la paranoia del contagio e la paura impongono i distanziamento, le mascherine e tutto questo impedisce il contatto. Faccio un esempio: io sono abituato a dare il microfono agli studenti (all'università, ndr) e farli parlare. Ora però mi mette in crisi anche far girare un microfono. Le cose più semplici sono diventate complicate, procurando un irrigidimento della didattica. E poi ci sono i dirigenti, alle prese con una serie di problemi come il tracciamento, le sostituzioni, le quarantene. Queste questioni urgono, nella quotidianità, più del rinnovamento didattico, che è possibile in una condizione di calma e tranquilla riflessione. All'inizio di gennaio, il dibattito sulla riapertura delle scuole è stato una tragedia. La paura e la paranoia incombono e si saldano con il disagio diffuso soprattutto tra gli adolescenti. In questo contesto, la retorica su comunità educanti, scuole aperte, nuovi spazi educativi non si è concretizzata. Insomma, complessivamente la pandemia è stata una grande occasione persa e un danno diretto per tanti. È scattato un riflesso difensivo e protettivo, che impedisce una visione espansiva: prevale l'esigenza, appunto, di evitare contagi, denunce, problemi. E nel frattempo, gli studenti si perdono: un amico dirigente mi ha detto di ben dodici ragazze che non vengono più a scuola: non gli era mai successo. Ci sono tanti studenti che hanno abbandonato, altri che i genitori preferiscono tenere a casa per paura dei contagi. E c'è un aumento dell'homeschooling, che è una grande sconfitta.
Ma se la scuola è così rigida e “ferma”, l'homeschooling può essere anche una scelta comprensibile...
Sì, può essere effettivamente vissuta come un'opportunità, visto che della scuola vengono evidenziati solo i problemi. Pensiamo alle recenti repressioni, alle manganellate, o anche solo al gran parlare, da due giorni, degli esami scritti. Ci si concentra o sui problemi oppure sui feticci, i simulacri, come ritengo siano, appunto, gli esami. Mentre c'è un mare di cambiamenti che attende di essere attuato, l'attenzione va sempre sui feticci: i voti, le valutazioni, le prove. Vi racconto un aneddoto particolarmente significativo: in un liceo un ragazzo ha un cattivo rendimento, quindi la scuola crea, insieme alla famiglia, il trasferimento in un istituto professionale. Un fatto doloroso, frustrante. L'ultimo giorno di liceo, l'insegnante d'Inglese lo interroga e gli dà 3. Ripresa dal dirigente, lei candidamente si difende: “Mi serviva il voto”.
E' quello che accade anche alla fine delle quarantene: ragazzi assenti magari per lungo tempo, costretti a vivere “reclusi” per settimane, rientrano a scuola alla fine del quadrimestre e devono affrontare verifiche e interrogazioni a ripetizione.
E' così. Ed è un gravissimo errore. Ecco perché credo che l'unica soluzione sia demolire alcune strutture: se c'è la struttura, questa viene rispettata. Se c'è la cattedra come struttura fisica, il professore entra in classe e va in cattedra. Se la cattedra non c'è, ma ci sono tavoli di lavoro, il docente si colloca diversamente. Se c'è un'unica lavagna, il docente va lì, ma se ce ne sono due, il docente si sposta. Altra struttura bestiale sono i libri di testo, una dannazione ma anche un grande conforto per gli insegnanti. Se ci sono i voti, c'è la corsa al voto: il dirigente può attivare sezioni senza voti, solo con una valutazione formativa. Ma pochi hanno il coraggio di farlo e poi a molti, ora, manca il tempo e la concentrazione per fare questo. Dobbiamo togliere le strutture vincolanti che condizionano il comportamento, o il nostro comportamento sarà condizionato dalla struttura stessa.
Esistono esperienze “virtuose”?
Sì, ne esistono, ma non sono messe a sistema. Ci sono professori motivati e illuminati, ma sono i dirigenti che devono esercitare la loro leadership culturale. Con la pandemia si è parlato tanto di una nuova didattica, di nuovi spazi: sono stati scritti documenti su documenti, che parlavano proprio di una scuola che, così sì, sarebbe stata universale, non solo inclusiva. Una scuola che non avrebbe più bisogno di cose speciali per gli studenti cosiddetti speciali, perché sarebbe un contesto di apprendimento diversificato. Ma questa diversificazione deve fare i conti con l'ansia delle famiglie da un lato, dei docenti dall'altro: l'ansia del lasciare liberi e dare fiducia.
Eppure, a parlare di una scuola diverse e possibile siete in molti. Ma la narrazione mediatica si concentra sempre solo sulla burocrazia scolastica e sull'attesa delle nuove regole.
Sì, indubbiamente i mezzi di comunicazione potrebbero aiutare a far crescere e valorizzare le buone sperimentazioni. Pensiamo al grande movimento delle scuole montessoriane, che godono di buona fama di buona stampa e quindi vengono imitate e si sono diffuse. Ma ci sono altre esperienze altrettanto valide, ma molto meno narrate e quindi meno conosciute, che perciò difficilmente si diffondono: penso alle scuole senza zaino, o senza cattedra, alle scuole all'aperto ecc. Sono scuole che hanno scelto l'universalità come stile, più che l'inclusione. Riuscire a raccontarle e valorizzarle darebbe la prova che, davvero, un'altra didattica non è solo possibile, ma anche desiderabile.