Nuova vita per Jane

«Mi chiamo Jane e sono arrivata dalla Germania con tre figli, senza un posto dove andare».

Nuova vita per Jane

Poche parole, per iniziare, faticosamente, una storia di speranza. Per capire questa storia bisogna però risalire almeno al 1999, quando Jane arriva in Italia dalla Nigeria. «Ero giovanissima. Le cose qui erano diverse. All’inizio ho avuto un contratto come colf, così ho ottenuto i documenti e ho fatto diversi lavori». Da qui il percorso lineare di una donna decisa, con le idee chiare. Jane segue un corso di design e realizzazione di modelli di scarpe a Fòrema ed entra in un’azienda di Fiesso d’Artico, dove ottiene un contratto a tempo indeterminato. Fa domanda per la carta di soggiorno illimitata, che le viene concessa. «Poi ho incontrato l’uomo che ho sposato. Volevo comprare una casa. Ero giovane, ma determinata. A ripensarci ora, mi chiedo come fossi riuscita a fare tutte queste cose. In tre anni ho avuto tre figli. Mi dovevo fermare continuamente per le gravidanze e dopo i figli ho dovuto lasciare il lavoro. Ho dato le dimissioni perché avevo tre bambini da accudire e la casa da gestire. Mio marito lavorava saltuariamente. Io gli dicevo: devi prendere la vita più seriamente. Lui mi prendeva in giro per la mia testardaggine. Pagavo il mutuo. Un giorno la banca mi ha chiamata per dirmi che la rata era aumentata, perché il mutuo era a tasso variabile. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire. Così mi sono detta: non ce la faccio. Sono andata in banca e ho detto: prendetevi la casa, io non la voglio più. Mi hanno proposto di allungare il mutuo, con una rata più piccola, ma ho rifiutato. Ho pensato: non posso tenere questa casa da sola coi miei bambini, se mio marito non lavora. È meglio che me ne vada, prima che arrivi qualcuno a buttarmi fuori». Era il 2011. L’Italia era in crisi. Molti cittadini stranieri tornavano al loro Paese d’origine. Un’ipotesi presa in considerazione anche da Jane, che però in Nigeria non aveva più genitori, né casa. «Così ho pensato di andare in Germania. Mio marito non è venuto con noi. Mi sono così arrabbiata! In Germania non mi piaceva, non conoscevamo il tedesco, tante cose... Un giorno ho ricevuto una telefonata. Era domenica». Qui il racconto si fa più difficile. «Un uomo, da Padova, mi dice: hanno trovato tuo marito a Bologna. È morto. Non potevo crederci. Era un uomo giovane, sano, bello. Era con una ragazza e degli amici. Hanno tentato di rianimarlo. Non so cosa facesse a Bologna. Io piangevo. I bambini piangevano. Ero partita dall’Italia da nemmeno tre mesi e i bambini chiedevano di daddy. Credevo che sarebbe cambiato e che saremmo tornati insieme. La settimana in cui è morto aveva detto che sarebbe venuto da noi». Al dolore si aggiungono le incombenze burocratiche. Jane deve tornare in Italia più di una volta per alcuni documenti, che fatica ad avere perché non risulta più residente. «Il mio primo figlio è autistico. In Germania mi dicevano che doveva essere curato qui in Italia. Ma se tu hai tre figli, uno dei quali autistico, ti danno un sussidio perché tu possa stare con loro, e una casa comunale. Stavamo bene, ma non avrei potuto avere i documenti. Ho fatto richiesta di asilo politico, ma mi è stata rifiutata, perché avevo un permesso di soggiorno in Italia. Mi hanno detto che lì non avrei mai potuto avere una carta di soggiorno illimitata, come qui. Sarei potuta rimanere con un permesso provvisorio. Ma io non volevo restare là. Poi per il regolamento di Dublino sarei dovuta tornare nel primo paese di approdo. Mi mancava l’Italia. I bambini sono nati qui. Io ci sono arrivata che avevo vent’anni... praticamente ci sono cresciuta. Pregavo Dio che mi desse la forza per andare avanti. Volevo stare in Italia. Che mio figlio fosse curato qui. Ma dove potevo andare? Non avevo mai chiesto aiuto. Forse perché prima stavo bene, coi miei bambini». Così alla fine del 2022, Jane torna in Italia, per rinnovare i documenti, ma con l’intenzione di restare. Un’amica le consiglia di rivolgersi al centro di ascolto della Caritas. Ci arriva in una condizione di prostrazione profonda, fisica e mentale. Si sente debole, stanchissima, piange. Le viene consigliato di rivolgersi all’assistente sociale di Vigonza, dove però non esisteva più il suo fascicolo. «Abbiamo dovuto far intervenire un avvocato – spiega Sara Ferrari, referente dell’area promozione umana di Caritas Padova – ma il Comune dove risiedeva non ha accettato la presa in carico, nonostante tre bambini, di cui uno in condizioni gravi. Per cui abbiamo cominciato a pensare a un percorso per Jane. Fortunatamente avevamo a disposizione un appartamento. Piccolino, ma sufficiente per cominciare a riprendere in mano la situazione e curarla. Abbiamo fatto la residenza comunitaria, la carta d’identità, la tessera sanitaria e finalmente il medico. Ma per tutto questo ci sono voluti dei mesi. Mesi e mesi di lavoro, per ottenere questi piccoli diritti». Jane però sta male, anche se non se ne rende conto. Non mangia e ha una forte anemia, che le dà dei capogiri. «Mi bastava che mangiassero i bambini e che stessero bene. Non pensavo a me. Il medico mi ha prescritto degli esami. Un giorno, era dicembre, eravamo andati a comprare delle giacche per i ragazzi. Non mi sentivo bene. Mi ha chiamato il dottore e mi ha detto di andare con urgenza in ospedale. Mi hanno fatto una trasfusione e mi sono ripresa. Mi hanno trattato come una di famiglia, che non ho mai avuto». Jane ride. Di una risata contagiosa, liberatoria. Dallo scorso maggio vive con i bambini in un appartamento più grande, ristrutturato dopo che l’ospite precedente l’ha lasciato perché ha concluso il suo percorso. Anche inserire i ragazzi a scuola non è stato facile. Hanno dovuto frequentare il Cpia-Centro provinciale per l’istruzione degli adulti per approfondire la lingua, hanno preso la licenza media e adesso uno frequenta l’Enaip, uno la scuola alberghiera Dieffe e il più grande il Duca degli Abruzzi. «Ora arriva la parte più bella – premette Sara Ferrari – L’anno scorso abbiamo fatto domanda per una casa Ater. Anche questo ha comportato una trafila burocratica lunghissima. Abbiamo rinnovato permessi di soggiorno, residenza e passaporti di tutti. Ma abbiamo avuto la fortuna che aprissero un bando per l’assegnazione delle case Ater, abbiamo preparato tutti i documenti e ci siamo messi in attesa. Ad agosto sono uscite le liste e lei era...». «Numero uno – la interrompe Jane – Io numero uno. Mi sono messa a urlare. A fine mese mi trasferirò. In centro a Padova. Tre camere, soggiorno, cucina e bagno. Il mio figlio più grande avrà la sua camera e io la mia. Potrò riprendere a lavorare, seguire un corso, magari di badante. E cominciare una nuova vita».

Accoglienza

Caritas Padova ha a disposizione sei appartamenti, che gestisce in collaborazione con la cooperativa Gruppo R. «Insieme formiamo un’unica équipe con competenze trasversali, in modo da incrociare i bisogni di chi ospitiamo – spiega Sara Ferrari – Le persone ci vengono segnalate da parroci, enti, Comuni, oppure arrivano dal centro di ascolto diocesano, destinato alle persone che si trovano in condizioni di marginalità grave, come è successo a Jane. Un grazie va alla parrocchia del Carmine e dell’unità pastorale dell’Arcella che, oltre a mettere a disposizione gli appartamenti, riservano agli ospiti il calore, l’attenzione e l’amicizia di cui hanno bisogno».

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