Nel silenzio dell’incontro. In un libro di Zaccuri il profondo legame tra preghiera e letteratura
La preghiera non è sempre solo pacificata pronuncia di parole rivolte a Dio, ma anche silente immersione nel dolore e nel dubbio
La preghiera è quel porsi in raccoglimento, quel pronunciare parole, quell’avere un certo tempo a disposizione, quell’attimo di fuga dalla frenetica vita metropolitana, o da quella più lenta dei contadini, come nell’Angelus di Millet? O è qualcosa di non facilmente spiegabile a livello razionale, l’improvvisa immersione in un pensiero-non pensiero, nel non razionale, in un sé che è anche un oltre?
La letteratura ci aiuta a rispondere a questa domanda, ed è grazie al recente bel libro di Alessandro Zaccuri, “Preghiera e letteratura” (San Paolo, 160 pagine, 14 euro) che riusciamo ad approfondire un rapporto davvero profondo. Anche perché l’autore affronta coraggiosamente pagine di frontiera, dove emergono i forse, i dubbi e le contrapposizioni degli autori e dei loro personaggi. Ed è Zaccuri stesso a dichiararlo in apertura: guardate che la preghiera non è sempre solo pacificata pronuncia di parole rivolte a Dio, ma anche silente immersione nel dolore e nel dubbio, nelle contraddizioni e nella apparente irrazionalità del vivere.
Ed è così che l’autore ci accompagna in un lungo viaggio che ha uno dei culmini in un Dante colto nella sua essenza profonda. Di abissi ci parla questo libro, perché è grazie al suo percorso, comprensibile a tutti, che riusciamo a comprendere quanto di non detto -e non dicibile- ci sia nella contemplazione finale e nel suo sprofondamento nell’Essere che non può venir rivelato. E fa bene Zaccuri a notare come sia l’elemento femminile ad accompagnare costantemente Dante, dalla Vergine a Beatrice, a Santa Lucia e di nuovo a Maria in quella vertiginosa preghiera non pronunciata che risale all’archetipo salvifico femminile.
L’autore mette in relazione la straordinaria, muta, abissale preghiera che è la Commedia -anche quando Dante fa i conti con lo straziante amore di Paolo e Francesca negli inferi- con il cammino novecentesco tra l’inferno della “Terra desolata” (1922) e il nuovo Eden de “Il mercoledì delle Ceneri” (1930) di Eliot che a sua volta ci rivela una preghiera del cuore, muta richiesta di senso e di cura.
Ma il viaggio inizia molto prima della Firenze del XIII secolo, perché parte dalle origini filosofiche di Democrito, e sarebbe stato bene parlare anche di Anassimandro e della sua visione di un inizio e dell’infelicità della mancanza scatenata dalla divisione nella molteplicità, con l’abbandono di quell’unità iniziale.
Coraggiosamente il nostro autore si rivolge all’epicureismo di Lucrezio, ad un materialismo che non significa ateismo, bensì separazione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. E il suo capolavoro, “De rerum natura”, inizia, guarda caso, con una preghiera. Certamente ad una divinità pagana, la feconda Venere, senza la quale nulla esisterebbe, ma che secondo l’autore rimanda all’inizio del Quarto Vangelo e alla presenza dell’elemento femminile in gran parte della letteratura, non solo quella d’amore.
Ed è giusto che qui si parli di Goethe e dei suoi Faust, quello iniziale e il secondo, cui il grande scrittore rimise mano anche durante il suo viaggio in Italia. Perché anche qui l’elemento femminile diventa veicolo di preghiera, tanto più disperata e vicina agli inferi, tanto più essenza abissale dell’animo umano e delle sue contraddizioni. Come avviene nella celebre, per qualcuno blasfema preghiera nel racconto di Hemingway “Un posto pulito, illuminato bene” in cui si assiste ad una sorta di parodia nichilista del Padre Nostro.
Anche qui, nota giustamente l’autore, emerge lo sprofondamento e insieme il terrore di quel “nada”, nulla, che aveva minacciato il Novecento, ma che era stato messo in discussione dai suoi stessi, iniziali e convinti assertori.